Per “chiudere il cerchio” di Mal Di Palco, la rassegna organizzata da Tangram Teatro, abbiamo raggiunto telefonicamente Chiara Tomei e Paola Giglio, le altre le altre due attrici i cui monologhi sono stati selezionati per il festival, rispettivamente IN-CINTA e FINALMENTE SOLA.
L’intervista, per coerenza, segue le stesse domande fatte ai due colleghi precedentemente raggiunti, mentre per quanto riguarda le impressioni ricavata, confermiamo ancora una volta energia, entusiasmo, consapevolezza. In una parola: professioniste.
Paolo Ferrara – Cominciamo da questa rassegna: come la inserite nel vostro percorso artistico?
Chiara Tomei – Io mi sono diplomata l’anno scorso all’Accademia di arte Drammatica Paolo Grassi e quindi ho affrontato il mio primo anno da professionista, quindi ho iniziato a muovermi tra bandi, provini… La prima fase è stata di fare qualsiasi provino mi capitasse, poi ho cominciato anche a lavorare su cose mie e ho iniziato anche a rendermi conto che ci sono anche le realtà delle rassegne, dei bandi in cui proporre i propri progetti. Mi sono imbattuta per caso a Mal Di Palco. Il mio monologo si colloca in un momento di scoperta della mia professione, del mio modo di esprimermi, in un anno in cui devi capire dove vuoi collocarti, dove ti piace stare. Quindi per è arrivato proprio nel miglior momento possibile.
Paola Giglio (in foto)- Lo spettacolo che ho presentato a Mal di Palco, che ha la regia di Marcella Favilla, il cui apporto è stato fondamentale, nel settembre scorso ha vinto un premio per la drammaturgia e l’ipotesi di messa in scena. Dopo questo premio il mio spettacolo ha fatto un debutto romano in un piccolo teatro e poi è stato preso in un rassegna un po’ più prestigiosa con grandi nomi femminili del teatro italiano, a gennaio. Come sappiamo c’è sempre un po’ di difficoltà nella distribuzione quindi quando ho visto il bando l’ho preso come una bella possibilità per rilanciare di nuovo lo spettacolo. Quindi sono stata contenta di questa occasione per questo monologo che sentivo che avrei voluto rifare ma avendo le condizioni giuste. Sono stata felice di poterlo fare in una rassegna così ben organizzata e dove si pone l’attenzione sul teatro indipendente, giovane e mettendo i giovani a confronto con artisti che si sono fatti da soli seguendo un percorso attoriale e autorale. Questa cosa è arrivata come un bel regalo in un momento in cui serviva una cosa così per lo spettacolo in sé. E per quanto riguarda me arriva proprio nel momento giusto. Scrivendo questo spettacolo io ho fatto un salto. È la prima volta che scrivo e mi metto in gioco scrivendo un monologo, dopo tanti anni in cui ho fatto l’attrice scritturata o piccole produzioni mie però su testi di altri. Questo spettacolo mi rappresenta a pieno in questo momento, è completamente mio, e il fatto che abbia questo riscontro in questa rassegna per me è molto importante,.
P.F. – Al di là dell’opportunità di mettere in scena il vostro monologo, avete avuto a disposizione tutto un corollario di occasioni, con la città che vi ha ospitato per una settimana: come lo avete vissuto?
C.T. (in foto) – Io non conoscevo benissimo Torino. Innanzitutto la meraviglia di conoscere questa città che è veramente bella. Sembra scontato dirlo, ma ho fatto veramente degli incontri bellissimi, sia con i colleghi che con lo staff del teatro. È stato bello poter vedere anche i monologhi di Michele Di Mauro, di Roberto Latini…. Capire un po’ che tipi di monologhi si possono fare, quante forme di monologo possono esistere. È stato bello che ci abbiano dato una carta per entrare in tutti i musei. È stata una settimana all’insegna della cultura e della ricerca. Se devo dirti qualcosa che ha rappresentato la settimana di Torino è stato proprio un momento per confrontarsi sui temi che ci riguardano, la cultura, la città, il cibo… tutto. Magari si potesse vivere tutto l’anno così…
P.G. – Per me è stata come una vacanza premio. È stato molto bello perché c’è stato uno scambio sia con gli attori più affermati Io la città l’avevo sempre vista in inverno, con il tempo più rigido e si esce meno volentieri. Invece ci ha accolto un tempo inaspettatamente primaverile. La mia giornata si componeva con due ore di prova la mattina, pomeriggio museo e sera spettacolo. Mii sono fatta un programma molto serrato per girarmi tutti i musei di Torino! È stata una coccola che ci hanno fatto. È bello il modo in cui è stato tenuto in considerazione il mestiere dell’attore. Noi siamo abituati spesso, fortunatamente non sempre, a ritrovarci a lavorare in condizioni non proprio agevoli.
P.F. – Da dove arriva il tuo monologo?
C.T. – Il mio monologo rientra in quel percorso di scoperta artistica di cui ti parlavo e che ho avviato alla fine dell’accademia. Nasce da immagini molto vivide che mi premevano, a partire dai sogni, dai fatti di cronaca… una serie di successioni che vengono dalle mie esperienze personali ma anche da ciò che la storia mi stava offrendo e poi dalla voglia di capire se poterne fare un discorso unico. Poi mi sono resa conto che tutti questi miei appunti, perché in fondo è nato da una serie di appunti personali, riflessioni, pensieri, cose che succedevano e che vedovo, mostravano ci fosse sempre da parte mia un tentativo lampante di volermi liberare da dei pesi. Perciò il tema In Cinta, era questo: la volontà di liberarmi dalla gravità in qualche modo. Che poi la ricerca è quella cosa che ti tiene sempre in moto artisticamente, quella volontà di superare certi limiti, certe pesantezze. Certe zavorre. Quando scrivi poi c’è molto di te stesso, ma in realtà mi hanno ispirato anche storie di altre persone. Ho tentato il più possibile non si trattasse di un discorso autoreferenziale ma potesse estendersi. Certo è che parte da una mia necessità.
P.G. – Mi sono diplomata alla Silvio d‘Amico nel 2007, mi sono diplomata molto giovane. Solo ultimamente ho sviluppato questo percorso autoriale. È il primo testo che scrivo. Visto tutto il riscontro che mi sta dandomi sembra di capire che questa sia una strada che devo continuare a percorrere. Sento forte la spinta di fare qualcosa di mio in cui riconoscermi e sento sempre di più l’esigenza di passare qualcosa con i miei spettacoli.
P.F. – La forma del monologo che hai portato a Mal di Palco è definitiva, un estratto o un work in progress?
C.T. – Questo è stato per me il primo passaggio di questo materiale che ho, che non è tutto quello che ho portato. Quindi un primo tentativo di dargli una forma. Quindi ancora acerbo, incompleto. Perché ci vedo altro potenziale. Adesso farà altre partecipazioni ad altri festival e ad altri concorsi, che è sempre un occasione per metterci mano, dare una scadenza alle cose e fare in modo che. Ecco, io non mi fermerei mai, starei lì a cercare di capire, a cercare di trovare un senso che mi sfugge continuamente. Tra l’altro è la prima volta che scrivo qualcosa, per cui è tutto veramente supernuovo per me, da capire e da scoprire. Non ha ancora una forma definitiva che mi soddisfi…. Ve lo dirò! Questa occasione di portarlo davanti a qualcuno, di confrontarmi… non potevo chiedere di meglio.
P.G. – Il mio monologo è compiuto. Io ho portato mezz’ora, ma non ho voluto presentare la prima mezz’ora o l’ultima. Ho fatto un “bignami”. Ho fatto vedere l’arco completo, dall’inizio alla fine, tagliando delle cose in mezzo e lasciando la suggestione dell’atmosfera generale. Ho fatto dei tagli drammaturgici ad hoc. Lo spettacolo c’è ed è stato frutto anche di una gestazione piuttosto lunga. La prima volta ho presentato i 5 minuti a scenario e sono passata in semifinale dove ho presentato 20 minuti. Due anni fa, per pochissimo non sono arrivata in finale, però lì avevo ormai mezz’ora di spettacolo. Da lì ho partecipato ad altri premi ed è cominciato tutto. Sono due anni che è in preparazione. Ora, ovviamente ogni volta che uno ci mette mano migliora qualcosa, però lo spettacolo c’è.
P.F. – Il rapporto con gli altri tuoi colleghi selezionati?
C.T. – È stato meraviglioso. Abbiamo composto un trio di una bionda, una rossa e una mora, con Angelo a fare da Charlie… eravamo le Charlie’s Angels. Scherzi a parte, bellissimi incontri, sempre tanto generosi. Forse sono fortunata io. Vedo che spesso fra i miei colleghi in queste situazioni c’è sempre tanta generosità, mai la competizione. Solo voglia di capire tutti insieme, di confrontarci. Sarà anche che siamo in questo momento culturale “speciale” quindi ci si fa forza a vicenda…
A.C. – Si sono create anche delle amicizie tra noi: abbiamo passato interi pomeriggi in giro per Torino. L’atmosfera di scambio che loro volevano creare organizzando in questo modo è stata assolutamente riuscita.
P.F. – Qual è il vostro rapporto con lo stato di salute del teatro in Italia?
C.T. – La sua salute certo è precaria. Il teatro gode da sempre di salute cagionevole. Quello che mi dico è: senz’altro ci sono dei punti su cui vale la pena riflettere tutti insieme. Gli spazi, il pubblico. Perché certo è che con tutti questi nuovi mezzi di intrattenimento e di comunicazione, il teatro subisce delle crisi. Sicuramente bisogna chiederci come ricollocarci, se ricollocarci, con quale pubblico, in che spazi, in che tempi. Credo che questo comunque sia già in atto. C’è una società che non viene incontro a questa esigenza, c’è un vuoto sociale perlopiù. Il mondo si sta talmente trasformando che il teatro fatica a ritrovare la sua posizione. Però sono in ballo tante cose e secondo me i frutti di questo periodo li vedremo in futuro. Non è vero che come generazione non abbiamo più niente da dire. La sensazione è quella di aver perso fiducia: non abbiamo più riferimenti del passato, né davanti. Siamo tutti lì un po’ spaesati, ma sono convinta che da questo marasma qualcosa uscirà.
P.G. – Lo stato di salute del teatro italiano è cagionevole. Io credo che soltanto attraverso una presa di coscienza di chi opera all’interno si possano cambiare le cose. Intendiamoci, i soldi non ci sono e tutto quanto. Sono anche convinta però che attraverso un comportamento personale di un certo tipo certe dinamiche si possano arginare. Per esempio se io accetto una paga non degna, ci sarà un altro dietro di me che la accetterà e questa fa si che determinate dinamiche non cambino. Però vedo anche molte persone che si dedicano alla loro ricerca e si dedicano a portare qualcosa di personale. Cambiano anche i posti in cui andare. Non posso certo dire che stiamo in un bel momento. Ho visto ieri le foto dello stato in cui versa il teatro Valle di Roma e non è incoraggiante, è uno specchio della situazione teatrale della città di Roma.
P.F. – Cosa consigliereste ai giovani che volessero intraprendere la vostra strada?
C.T. – Quello che ho capito… Molto semplicemente… è che lo devi proprio volere… quindi consiglierei di capire in primis se è una necessità. E poi studiare. Tanto!
P.G. – Nonostante tutto, nonostante le condizioni in cui versano le scuole, io consiglio sempre di fare una scuola. Di studiare, di provare ad entrare in una di queste accademie. È la conditio sine qua non per me. È proprio il primo passo. È più difficile fare un percorso non passando da lì. Bisogna avere più consapevolezza, molto più “talento” per trovarsi gli strumenti da soli. Stare tre anni in una scuola, pensare solo a quello… anche per capire se si vuole davvero entrare in questo ambiente. È un primo esame per capire se questa vita può fare al caso mio. Le accademie di teatro non sono ambienti facili. Oltre a questo sono un po’ in difficoltà a dare un consiglio… ognuno deve capire bene cosa vuole fare, porsi un obiettivo e perseguire quello. Le idee chiare però vengono col tempo… è una questione spinosa… non c’è una sola via possibile.
Cos'è Mal di palco
Una rassegna di teatro di ricerca creata da Tangram Teatro che coinvolge attori di fama nazionale, riconosciuti e premiati dalla critica, e giovanissimi professionisti al fine di creare un confronto stimolante e proficuo fra generazioni diverse. Una call nazionale rivolta ad attori under 32 con l’obiettivo di individuare 4 artisti provenienti da percorsi di formazione altamente qualificati da inserire nella rassegna per dare loro visibilità e permettere al pubblico di conoscere le nuove proposte. Un progetto condiviso con l’Università degli Studi di Torino ed in collaborazione con il Prof. Armando Petrini, docente di Discipline dello Spettacolo.