MAL DI PALCO – Intervista a Angelo Campolo e Ksenija Martinovic

In occasione di Mal Di Palco, rassegna organizzata da Tangram Teatro, abbiamo avuto l’occasione di incontrare e scambiare qualche chiacchiera con Angelo Campolo e Ksenija Martinovic, i primi due selezionati che hanno avuto la possibilità di mettere in scena il proprio monologo nel corso della rassegna.

Li abbiamo incontrati a cavallo delle loro prove.
La prima importante impressione, che non ha fatto altro che crescere durante l’intervista, è quella di trovarsi davanti non tanto a “ragazzi”, “esordienti” o una qualunque delle altre etichette che normalmente si affibiano in occasioni simili, ma a dei veri e propri professionisti.

I due “under 32” che mi sono trovato davanti non sono qui perché ci stanno “provando” o perché “gli piace il teatro”, ma sono qui perché sono due attori e due autori in una delle tappe del proprio lavoro artistico e creativo. Due professionisti con un proprio background e una consapevolezza solida.

L’energia e l’entusiasmo sono palpabili, così come la voglia di fare e confrontarsi con il teatro ben al di là di canoni, stereotipi o limitazioni di cui spesso si trova vittima. Dall’intervista non solo emergono queste cose e abbiamo la possibilità di conoscerli un poco (e farci nascere la voglia di seguirli e scoprire dove andranno) ma nasce anche l’occasione di approfondire il ruolo e la condizione del teatro oggi.

Paolo Ferrara – Cominciamo da questa rassegna: come la inserite nel vostro percorso artistico?

Ksenija Martinovic – Per me è sempre un’emozione aver la possibilità di mostrare al pubblico, qui a Torino è la prima volta, lo spettacolo "Diario di una casalinga serba". È un lavoro a cui tengo molto ed è un lavoro su cui ho lavorato da molto tempo. Ho iniziato a lavorare da sola e poi si sono inserite altre persone e altre istituzioni come Fiona Sansone che poi ha firmato la regia e mi ha aiutato molto nella direzione attoriale e il CSS Teatro Stabile di Udine che è entrato come produzione. È una cosa che è nata proprio da una mia esigenza di raccontare il mio paese, le mie origini e di fare un lavoro da sola io in scena. Il testo viene da un romanzo omonimo di un’autrice serba molto conosciuta, Mirjana Bobic Mojsilovic, però io l’ho elaborato e in qualche modo lo sento molto mio. È molto importante che lo spettacolo sia in questo contesto, perché secondo me è un contesto molto bello. Insieme a dei nomi già affermati ci siamo noi quattro che un po’ stiamo cercando di farci la nostra strada.

Angelo Campolo – Io devo a Mal di Palco l’esistenza stessa di questo lavoro, non era qualcosa che avevo già preventivato di far nascere. Ho incontrato la scrittrice di questo libro che si chiama I Bambini della Notte, che è di Torino. Le circostanze in cui ci siamo incontrati riguardano comunque il lavoro che sto facendo giù con un gruppo di giovani migranti insieme a dei giovani attori italiani, quindi per affinità il tema riguardava un po’ questo percorso e quindi, ho visto che lei era di Torino, e a Torino c’era questo concorso e ho presentato 10 minuti. E adesso presenterò mezz’ora, e ancora non so dove mi porterà. Quindi in questo senso sono davvero molto grato a quest’eperienza, perché, come diceva Ksenija, ci avvicina a persone importanti, con dei percorsi belli e comunque utili sui quali tornare a riflettere. Nel mio caso spero di poter riuscire ad arrivare ad un’ora, per poterlo partorire definitivamente.

P.F. – Al di là dell’opportunità di mettere in scena il vostro monologo, avete a disposizione tutto un corollario di occasioni, con la città che vi ospiterà per una settimana: come lo state vivendo?

K.M. – A me piace molto l’atmosfera del festival in generale. Devo dire che ieri mi sono emozionata già entrando nella stanza del Campus dove siamo ospitati. È un’esperienza a 360°, molto emozionante, molto stimolante. Credo che sarà molto importante.

A.C. – Secondo me dovrebbero essere tutte così le esperienze. Il teatro andrebbe vissuto anche a livello istituzionale, con questa idea, cioè che non si tratta solo di un prodotto di consumo. Io cerco nel mio lavoro di inculcare alle istituzioni come posso che il teatro dovrebbe stare aperto tutto il giorno. L’evento dello spettacolo è una delle cose che devono succedere. In questo l’est ci insegna molto. Ci sono realtà europee dove il teatro è come un tempio, come una chiesa, dove vai e stai molto tempo. Invece da noi è più legato all’intrattenimento. Che va bene, però non è quello che credo dovrebbe fare il teatro. Si può fare anche intrattenimento, ma ha tempi diversi l’intrattenimento. Il teatro è uno spazio che ti prendi un po’ per riflettere, per approfondire. Dovrebbe essere così.    

P.F. (a Ksenija) – Questa che presenti è già la forma definitiva del tuo spettacolo?

K.M. – Lo spettacolo ha già la sua forma definitiva. Qui presenterò 30 minuti che sono una parte dello spettacolo. Non ho voluto fare una riduzione, quindi gli spettatori non vedranno la fine ma vedranno la prima parte. Preferivo così perché sarebbe stato difficile per chi vede lo spettacolo riuscire a mettere tutto insieme in 30 minuti perché c’è anche una storia complessa da far passare ad un pubblico che non viene dalla mia terra, che non conosce quindi tutti gli avvenimenti a cui si fa riferimento. Quindi secondo me era più giusto far vedere l’atmosfera, prendere il respiro, conoscere il personaggio. È tutto molto incentrato sulla storia di una famiglia, della famiglia di questa donna, non tanto sulla storia politica, che ovviamente c’è ma non è il fulcro.

P.F. – Qual è il percorso che state facendo, da dove arrivate?

A.C. – Io come formazione mi sono formato alla scuola del Piccolo dove ho avuto la fortuna di entrare a 18, quindi a 21 sono stato licenziato e mandato a lavorare. Il primo approccio l’ho avuto con Ronconi. Lui è stato quello che per primo a scuola e poi dopo mi ha avvicinato e mi ha scelto. Poi negli anni ho incontrato diversi con i quali mi sono sempre legato almeno per un biennio, triennio. Antonio Calenda, Vetrano e Randisi che mi hanno portato a fare un lavoro sul territorio che mi ha aperto poi altri tipi di canali che sto continuando. Da lì è nato un Amleto di Bruschetta che abbiamo portato in giro l’anno scorso. Mi trovo in un momento in cui sto cercando di fare la professione dell’attore, ma al tempo stesso di lavorare a quel teatro a 360° di cui parlavamo, per cui tengo conto che ho una compagnia, che ho un gruppo di persone che lavorano con me, e adesso mi comincio a sentire un poco più responsabile nei loro confronti di quanto lo sia stato in passato. Poi non lo so a che punto sono del mio percorso, dovrebbe passare un po’ più di tempo per poterti dire dove vado…

K.M. – Io mi sono formata alla Civica Accademia di Arte Drammatica Nico Pepe di Udine. Prima ho fatto un percorso come allieva straniera alla Silvio d’Amico. Dopo la Nico Pepe ho iniziato a lavorare sul monologo della casalinga serba, che poi l’anno dopo ha vinto come miglior monologo nel premio giovani realtà del teatro, sempre a Udine. Nel mentre ho lavorato con la Piccola Compagnia della Magnolia, quindi con Giorgia Cerruti e Davide Giglio, poi sono entrata in produzione con il CSS con il diario di una casalinga. Nel mentre ho fatto anche un altro progetto che ha vinto il premio Anita Lidia Petroni alla Residenza Idra a Brescia, che debutterà nel 2017 ed è un lavoro su Ofelia, si chiama Vestimi bene e poi uccidimi con la regia di Marcela Serli con la quale adesso sto collaborando e quella è la mia compagnia D’Angelo Martinovic, che è insieme alla mia carissima amica e bravissima attrice, Federica D’Angelo con cui lavoro. Ho fatto molti lavori da sola, ho lavorato anche con diversi registi e in questo momento, una notizia che è uscita da poco, sono stata presa all’Ert a Modena per il perfezionamento attoriale con Ivica Buljan. Di questo sono molto felice… io ho 27 anni, mi sono diplomata abbastanza presto, tre anni fa, e in questo momento sentivo il bisogno di continuare la mia formazione, o comunque di conoscere una persona di teatro di grande impatto come potrebbe essere Ivica Buljan, e che tra l’altro viene dalle mie parti, e quindi mi piaceva anche questa cosa qui.       

P.F. – Qual è il vostro rapporto con lo stato di salute del teatro in Italia?

A.C. – Potrebbe arrivare una risposta lunga… Io penso di condividere come molte persone l’idea che il teatro sia una cosa importante, non qualcosa di secondario. Qualcosa che incide veramente nella vita delle persone. Il lavoro dei laboratori, degli incontri e della formazione, come diceva prima Ksenija, è importante, non finisce mai. Non riguarda solo poi chi vuole fare l’attore ma riguarda il nostro modo di comunicare, il nostro senso di comunità secondo me, quindi il teatro ha un riflesso politico. Il problema è che purtroppo c’è una trappola nel teatro che riguarda i piani alti e quelli piani bassi. Per quelli bassi di autoreferenzialità, cioè di parlare ad un pubblico che la pensa esattamente come quelli che stanno sul palco. Quando questo succede è sicuramente masturbatorio… stai dialogando con te stesso. Questo meccanismo va rotto sia nei piani bassi che in quelli alti. E in quelli alti va rotto nel senso che si deve creare una collegialità. Per esempio questa grande riforma che hanno promosso e che doveva aprire i teatri nazionali poi si è risolta di fatto in una pagliaccia. Io avevo salutato con felicità all’inizio che si smettesse con l’idea di fare la tournè. Che poi non nasce da un esigenza artistica, ma in Italia nasce semplicemente da un motivo economico politico perché non c’è motivo di far girare gli spettacoli in tutti i paesini del mondo se non in virtù di scambi tra un teatro e l’altro. E poi si sa come si è risolta: il teatro nazionale non è uno, ma all’improvviso sono dieci, come i festival del cinema. E allora se c’è tutta questa voglia di fare mettiamoci d’accordo. Non è sbagliata, però se poi deve creare gran confusione e di fatto nulla perché non ci sono in Italia i grandi spettacoli che stanno in scena che producono i drammaturghi, gli attori, che danno anche una stabilità al lavoro dell’attore. Tutto questo, di fatto non si è creato. Cerchiamo di creare nei posti una stanzialità, una continuità e un rapporto con il pubblico. Il mio rapporto è questo, è conflittuale, mosso da una voglia di provare a fare qualcosa. Abbiamo tentato di aprire questa piccola sala, abbiamo dato una continuità ai temi creando dei capitoli e il gruppo ha dimostrato di seguire questo tipo di proposta. Secondo me non devi avere paura del pubblico. Devi andare anche da quelli che non capiscono il tuo lavoro e regiscono magari anche male. Ma lì c’è qualcosa che si apre. Purtroppo invece in Italia vai ai festival e sono tutti attori che guardano attori o critici che guardano attori. Dovremmo avere il coraggio anche a volte di tornare su delle ovvietà. Ronconi parlava sempre di uno spettatore ideale, diceva che quando vai in scena ti devi immaginare il tuo spettatore ideale. Per me in questo momento il mio ideale è proprio quello che si emoziona a vedere un evento dal vivo, a vedere un uomo sudare, sputare, e penso che questo tipo di emozione la possa provare un ragazzo di 17-18 anni che non è mai entrato a teatro, un ingegnere, un informatico, uno che fa grafica. Mi interessa più quello che uno studente del Dams…   
      
K.M. – Io mi ricordo che una volta Paolo Magelli, un regista che mi piace molto una volta disse una cosa molto interessante. Lui diceva che in questo momento vede una grande crisi generale, però è anche vero che in tutti i momenti di grande difficoltà, se guardiamo alla storia, nascevano cose molto potenti. E io spero in noi e nella nuova generazione dopo di noi. È una cosa che non si riesce a percepire fino in fondo perché siamo noi dentro questa cosa, ma io spero veramente che questa difficoltà, perché c’è una difficoltà enorme, anche solo lavorativa, di riuscire a fare il mestiere che uno vuole fare, porterà a qualcosa di molte forte, ad un cambiamento artistico molto forte. Vedo ultimamente molti gruppi in difficoltà che però fanno molte cose interessanti. A teatro mi piace molto andare a vedere le compagnie. Io sto a Milano e ce ne sono molte che fanno lavori interessanti. Magari non fino in fondo, però sempre con un certo sguardo. E infatti sono molto curiosa di vedere i lavori degli altri selezionati.       

A corollario di questa intervista risentiremo Angelo e Ksenija alla fine dell’esperienza di Mal di Palco per avere le loro impressioni e sapere cosa si portano via da questa esperienza

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