OMAGGIO A GIULIANO SCABIA @Orizzonti Verticali. L’infinito andare della parola poetica. Intervista ad Andrea Mancini

È bellissimo l’andare. È luce. Andar via, tornare. Trovare tracce, orme, odori – occhi in attesa di guardare. Vedere dentro l’ombra.
Giuliano Scabia, da Canto del crinale, in Canti del guardare lontano (2012)

Omaggio a Giuliano Scabia al Festival Orizzonti Verticali

In uno splendido giardino, un “hortus conclusus” di San Gimignano, gli scritti di Giuliano Scabia trovano rifugio e protezione, per essere visitati, sfiorati, recitati. Così le sue parole “vaganti” saranno ascoltate ancora e ancora, in un “infinito andare”: «far parlare le cose, farle camminare nell’aria, nel vento, nel fiato dell’anima. La natura, paesaggio, acque, fiumi, mare, alberi, bosco, bestie, corpo, tutto è anima. E anima è anche l’amor carnale, il balbettio e l’estasi dell’Eros». Annibale Pavone pronuncia questa ed altre bellissime parole del grande poeta, e le parole piovono sugli spettatori, tra di loro, grazie agli altoparlanti nascosti che permettono di farle lievitare, di renderle incorporee ed epifaniche, presenze segrete nel segreto giardino. Solo leggii dall’uno all’altro dei quali l’attore si sposta, e la bellezza geometrica del locus amoenus che diventa simbolo palpabile della bellezza declamata e suggerita. Andrea Mancini, costruttore di questo gioco di voci e di vento, risponde a qualche domanda per penetrare più a fondo nel segreto dello spettacolo.

Intervista ad Andrea Mancini

Susanna Pietrosanti: Come è nato questo bellissimo omaggio al poeta Giuliano Scabia?

Andrea Mancini: L’idea è stata del festival Orizzonti Verticali, cioè di Tuccio Guicciardini e Patrizia Di Bari. Merito loro che mi hanno sollecitato a scegliere una serie di brani tratti dai libri di Scabia. Hanno scelto un attore di grande sensibilità come Annibale Pavone e hanno messo a nostra disposizione uno straordinario giardino privato, progettato dall’architetto Pozzuoli, allievo di Piero Porcinai, nell’ambito cioè di una formidabile scuola del verde, che ha dato vita ad alcuni tra i più bei giardini d’Europa. Insomma gli ingredienti c’erano tutti per valorizzare al meglio un grande poeta come Giuliano Scabia. Il punto di partenza che ha dato ispirazione allo spettacolo, è la parola poetica, le muse che suggeriscono allo scrittore i loro itinerari divini. In questo giardino un po’ magico molte statue rappresentano queste figure mitiche, elfi, esseri magici. Si entra da un bel pergolato, si arriva, dopo un viaggio nell’immaginario, dentro un labirinto. Siamo dentro un luogo che già di per se stesso è evocativo, è bastato davvero molto poco per fare il miracolo del teatro. Del resto questa è sempre stata la ricerca di Scabia, quella di un poeta, che si è mescolato con la ricerca teatrale, con i bambini, con i matti, con i giovani universitari.  Con loro, per trent’anni, ha realizzato una eccezionale scuola di teatro.

La parola poetica di Giuliano Scabia

S.P. Poesia sempre, anche quando il testo si scandisce in prosa?

A.M. Le sue parole giocano sempre con grande efficacia con il loro pubblico, sono sempre immagini di poesia, anche quando racconta le sue “lezioni universitarie”. Nel libro postumo Scala e sentiero verso il paradiso. Trent’anni di apprendistato attraversando l’università ci sono delle pagine in questo senso davvero emblematiche, come quelle che il nostro attore, Annibale Pavone, ha rievocato e che raccontano della Bologna spettrale del 1977, che viene in qualche modo riscattata dal lancio delle mongolfiere e dall’impegno dei suoi abitanti perché arrivassero in cielo, attraverso le logge, le finestre dell’università, ma anche delle banche, sulle piazze, attraverso una Bologna che pareva non amare più e che invece restava viva e accogliente. Pagine appunto di grandissima forza, con una scrittura che si avvicina alla perfezione.

S.P. Certo, ma ci voleva la tua sensibilità, e le profonde radici del vostro rapporto. Si tratta di qualcosa che andava al di là del mero rapporto formale?

A.M. Sì, il mio rapporto con Giuliano risale agli inizi degli anni 70, è cominciato prima sui suoi libri, che hanno ispirato tutto il mio lavoro, poi ci siamo conosciuti e ci siamo frequentati negli ultimi quarant’anni. Ho amato le sue parole, a volte credo di averle anche aiutate a nascere. Giuliano è stato, ed è ancora, il mio più grande amico, soprattutto è un poeta di eccezionale valore, che ha cercato la parola dovunque sia andato, tra i matti dell’ospedale psichiatrico di Trieste, nell’università, nel teatro di stalla, con i bambini e nel teatro popolare anche in quello di ricerca, sperimentale. Il lavoro è sempre stato lo stesso, la ricerca di una parola poetica, nei boschi, con gli animali, in un infinito andare. Volevo che il pubblico capisse semplicemente questo e mi è sembrato che la magia ci sia stata, anche grazie ad Annibale Pavone, un attore di rara sensibilità, che viene da Tiezzi e da Latella, dalla scuola di Vittorio Gassman, da un lavoro non casuale con Albertazzi e con tanti altri attori e registi che credevano e credono nella parola poetica.

La scelta dei testi interpretati da Annibale Pavone

S.P. Da dove hai tratto i testi recitati?

A.M. Non è stato semplice, o al contrario è stato facilissimo, nel senso che non sono andato a cercare i tanti brani teatrali, ho scelto quella che già Giuliano considerava la sua poesia, cioè parti de Il poeta albero o di Opera della notte, o quelli bellissimi pubblicati più di recente in Canti del guardare lontano (Einaudi). D’altra parte sono andato anche a cercare libri apparentemente in prosa, che raccontano storie da lui attraversate in una forma che nasconde non celandola del tutto la sua natura poetica. Sto appunto pensando al suo ultimo, splendido, Chi è la cura? dedicato alla moglie, anche lei presente allo spettacolo. Cristina Giglioli, una cardiologa importante, che Giuliano aveva presentato, anche per motivi professionali, a tanti suoi amici, me compreso. Ma al di là del racconto, spesso divertente, che queste persone hanno scritto per il libro, Giuliano l’ha fatto diventare un’importante riflessione sul curare, qualcosa che non può e non deve mai dimenticare che dietro al malato (anche quello psichiatrico “curato” ai tempi di Marco Cavallo), ci sono donne e uomini, con i loro sentimenti e la loro sensibilità. Insieme a Cristina, c’erano tra gli spettatori anche il grande Maurizio Conca, che per cinquant’anni ha documentato il lavoro di Scabia, soprattutto con la macchina fotografica e Carlo Taiti, che ha conosciuto Giuliano nel 1967 e da allora non l’ha più lasciato.

S.P. So che è stato proprio Carlo Taiti a inserire nella performance la canzone del cavallare, vero?

A.M. Sì, quando Carlo ha sentito Annibale parlare di “cavallare”, non ha potuto non cantare la canzone di Rosina, una matta di Trieste, che nel 1973 suggerì a Giuliano una serie di termini che sarebbero entrati dalla porta principale nel suo lavoro lirico: Voglio divertirmi a correre / spaziare nei prati liberi, volare / voglio portare i fagotti / della biancheria netta / e anche a cavallare.

Prossimi progetti ispirati da Giuliano Scabia

S.P. Che ne sarà di questo lavoro, andrà in tour? lo spettacolo verrà ripetuto?

A.M.: Forse sì, anche pensando al suo risultato, ad un formidabile apprezzamento da parte del pubblico presente, che spesso è venuto ad assistere a tutte e due le repliche. Non è una cosa consueta, almeno credo. Vedremo, anche se io avrei un’idea che complica il progetto: oltre a questo lavoro, mi piacerebbe continuare ad occuparmi di Giuliano, usandolo ancora – come del resto ho sempre fatto – come ispiratore del mio teatro, mi piacerebbe che Annibale Pavone si misurasse con “Lettera a Dorothea”, che Giuliano scrisse come premessa ad uno dei suoi libri più belli, ma anche più difficili, quello che racconta lo spettacolo Il Diavolo e il suo Angelo. Un incredibile lavoro teatrale che oggi ispira tantissimo teatro che magari neppure lo conosce, un teatro che torna a cercare le strade del bosco, le piante e gli animali. In questo libro c’è narrato l’incontro (ma forse non è la parola giusta, perché appunto è restituito poeticamente) tra Padre Alfonso della Verna e il Diavolo (Giuliano appunto) sotto gli occhi dell’Arcangelo Michele (Aldo Sisillo) e di altri, qualcosa che va ben al di là del teatro e della poesia ed entra in una scrittura che potremmo dire agiografica. Anche stavolta Scabia è entrato nel mondo della spiritualità con tutti i suoi strumenti, scientifici, letterali, ma anche appunto “spirituali”, con una serietà che non troviamo da tante altre parti, e che lo fece anche incrociare il suo destino con quello del Monaco Silvano: cioè Silvano Maggiani, frate dell’Eremo delle Stinche, vicino a Panzano in Chianti, che a fine anni 70 ospitò uno straordinario convegno sul rapporto tra teatro e liturgia, al quale parteciparono i maggiori studiosi delle due discipline, con risultati a dir poco eccezionali.

S.P. Il tuo rapporto con Scabia mi sembra ancora davvero attivo, mi sbaglio?

A.M. Giuliano sarà sempre accanto a me a suggerirmi la strada. Sono felice di aver lavorato ad una lunghissima intervista video, quasi trenta ore in cui Scabia parla di tutto, soprattutto dei suoi primi venti anni di vita, a Padova. Ad esempio in rapporto con un altro frate importante come don Arturo Paoli, un frate partigiano che lavorava per salvare gli ebrei e la resistenza. Fratello Arturo, nel periodo in cui lo conosce Scabia, lavorava nell’Azione Cattolica, in contrasto con Luigi Gedda, l’anima nera di quel formidabile movimento. Altra cosa di quegli anni è il viaggio di Giuliano con l’autostop, ma anche la sua partecipazione, di giovanissimo spettatore, ad un teatro universitario di cui non si conosce niente, ma che è stato essenziale per il teatro degli anni successivi. C’erano Gianfranco De Bosio, oggi ancora attivo, nonostante i novantasei anni, Ludovico Zorzi, grande maestro della storia dello spettacolo e lo scopritore del Ruzante, ma c’erano anche Amleto Sartori e Jacques Lecoq, quelli a cui si deve tutto il lavoro sulla maschera e sulle azioni mimiche dei Comici dell’Arte, alla base del teatro di Strehler e di Jean Louis Barrault.

Il mondo poetico di Scabia tra la gente comune

S.P. C’era anche questo dietro al vostro lavoro sui Canti dell’infinito andare?

A.M.: Scabia, te l’ho detto, è sempre al mio fianco, ma il suo suggerimento è leggero, forse anch’esso poetico. Nel senso che lascia che le persone usino al meglio la loro lingua, il loro modo di esprimersi. I momenti di maggior intensità della nostra esperienza comune sono stati quelli di quando verso fine anno l’ho accompagnato sugli Appennini, vicino alla Pietra di Bismantova, verso i paesi di Marmoreto. Lì ogni anno, a partire dai primi anni ’70, Giuliano è andato a trovare queste persone portando la sua poesia nelle case della gente comune, dei poeti contadini, dei quasi analfabeti, ottenendo in cambio un modo di esprimersi ormai sconosciuto, fatto di parole, di versi, di modi di dire, di rime straordinarie. Anche questo era parte della sua ricerca, con personaggi che entrano nel suo universo, che diventano mito e presenza scenica, che acquistano un’importanza che forse non avevano, ma che attraverso Giuliano e chi lo accompagnava, sempre coinvolto nell’azione teatrale, diventava magia, teatro, poesia.

CANTI DELL’INFINITO ANDARE

un ricordo poetico di Giuliano Scabia e della sua arte 
con Annibale Pavone
consulenza drammaturgica Andrea Mancini
produzione Orizzonti Verticali/Fondazione Fabbrica Europa

Giardino Gigli, San Gimignano
Venerdì 20 agosto 2021

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