In scena al Teatro Hamlet di Roma dal 23 al 25 gennaio UCCELLI DEL PARADISO, ultimo spettacolo, scritto e diretto dal giovanissimo Riccardo Merlini, della “Compagnia delle origini”. Abbiamo incontrato il regista, curiosi di conoscere i retroscena creativi e produttivi di questo suo ultimo lavoro.
Anna Maria Michetti (A.M.M.) “UCCELLI DEL PARADISO”, tua ultima opera autografa di cui curi anche la regia, racconta di una donna in una condizione psico-fisica compromessa, prima rea poi vittima di abusi. Un testo femminile e femminista, non a caso la tua “Compagnia delle origini”, per questa produzione, ha come partner l’associazione “Rising”. In che modo la tua sensibilità, certamente maschile, si è rapportata con l’universo femminile se non, addirittura, con il femminismo?
Riccardo Merlini (R.M.) Fin dai primi spettacoli che ho fatto, non con questa compagnia, in precedenza, mi è sempre stato riconosciuto che, stranamente, nonostante l’età che ho, 24 anni, nonostante che io sia un uomo, abbia sempre dimostrato – e credo sia il motivo che porta determinate persone, di un certo livello, a collaborare con me – una spiccata sensibilità nei confronti dell’altro sesso. Non so minimamente a cosa sia dovuto, ritengo però che la donna sia un vaso pieno di varietà, un terreno molto particolare che possa essere scandagliato più intensamente e in modo divertente. L’uomo ha i suoi punti forti però…
A.M.M. Riscontri una maggiore rigidità nell’universo maschile?
R.M. Sì, lo trovo più rigido. Più che altro trovo la donna un essere che riesce ad andare oltre l’uomo, che lo supera. L’uomo è la base, è molto istintuale. La donna non solo ha una base istintuale, che è quella che magari la porta a proteggere il proprio figlio quando è in grembo, ma ha anche una parte prettamente razionale. L’uomo invece tende a perdere questa parte razionale…e lo dico da uomo!
A.M.M. Mentre scrivi, come avviene la creazione di queste identità femminili? Qual è il rapporto che instauri con loro? Da un punto di vista metodologico come procede la stesura dei tuoi testi? Ho letto in altre tue interviste che la tua scrittura è di ispirazione calviniana…
R.M. Sì, non si tratta proprio di ispirazione. Diciamo che ho trovato, nell’arco del tempo, una similitudine, tra questo mio modo di fare e quello che apparteneva al processo creativo di Calvino. C’è stato un periodo in cui ho ascoltato tantissimi interviste fatte a scrittori più o meno recenti, tra cui Italo Calvino, al quale mi ero fortemente appassionato. Ad un certo punto lui spiega il suo modo di scrivere: raccoglieva informazioni, scriveva sulla base di ispirazioni istantanee senza preoccupazione di coerenza rispetto ad un prodotto narrativo finale. Alla fine decideva dove e come catalogare questi materiali, creava dei libriccini, delle cartelle e inseriva dentro. Quando il libro era bello grosso, lo riapriva, leggeva e creava. Ho fatto così con “UCCELLI DEL PARADISO”: ho accumulato tantissimi dati, ricerche e scritti: ogni tanto riaprivo tutti i documenti, li rileggevo, li rielaboravo, poi mi sono accorto di avere un testo già pronto.
A.M.M. Il personaggio è emerso naturalmente e involontariamente fuori da tutti questi materiali raccolti?
R.M. Se devo essere onesto non ho neanche pensato a farlo maschile, non mi è mai saltato in testa di farlo maschile. Non l’ho scelto io. È stata un scelta del personaggio. Lei mi ha chiamato. È un personaggio molto particolare: una donna che ha sia una fortissima componente razionale, come dicevo prima, ma allo stesso tempo è molto istintuale. Infatti, tutte le sue vicende, tutto quello che avviene nello spettacolo è prettamente dovuto ad un’azione sua istintuale.
A.M.M. Ti riferisci al delitto? Quando, dopo aver scoperto il tradimento del marito, gli taglia la testa?
R.M. Si, mi riferisco al delitto. Lei trova a letto suo marito con l’amante e la prima reazione che ha, senza neppure parlare, è uccidere entrambi. Questo è l’antefatto del tutto. Si scopre poi, nel corso dello spettacolo, che è una donna dal passato burrascoso, molto duro e emerge la sua razionalità. G. è una donna che è sempre stata legata a dei vincoli sociali forti.
A.M.M. Quindi è come se si fosse liberata da questa prigione “sociale” nell’atto dell’omicidio?
R.M. Uccidere è, per lei, scegliere di seguire la strada più semplice rispetto alla vita che lei ha sempre vissuto. Come nelle favole: c’è la strada buia e oscura con i lupi e dall’altra parte quella con gli uccellini: si sceglie quella con gli uccellini. In realtà l’altra è più veloce, lei sceglie quella più veloce, sbagliando.
A.M.M. La protagonista G., compiuto il delitto, viene ricoverata in una clinica psichiatrica dove vive una fase di psicosi…
R.M. In realtà la psicosi è una patologia che le viene affibbiata. Facendo riferimento a quelle che erano proprio le situazioni negli anni ’60 e ’70 nei manicomi, dove non esistevano dei padiglioni per donne criminali, le donne che avevano commesso un delitto, venivano smistate in altri reparti. Ad alcune veniva diagnosticata una malattia, non dico casuale, ma approssimativamente vicina a quella che avrebbe potuto giustificare l’atto criminoso di cui si erano macchiate. Non c’era una consapevolezza come quella che abbiamo oggi…
A.M.M. La decapitazione compiuta da “G.” ai danni del marito, ha suggestionato la mia immaginazione creando un parallelismo con la vicenda di Giuditta (G.) e Oloferne. Giuditta uccide per salvare il suo popolo, liberandolo. G. uccide per liberare se stessa da tutti quei vincoli sociali di cui parlavamo. È possibile astrarre riportando il suo gesto individuale ad un gesto più universale, vedendolo insomma come simbolicamente liberatorio di tutto il genere femminile da queste abitudini sociali? E perché, qualora fosse legittimo questo ragionamento, decide, compiuto il delitto, di affidarsi di nuovo al maschile, nella figura del suo amante-psichiatra, colui che la costringe al manicomio?
R.M. L’atto di tagliare la testa all’uomo, è dovuto alla sua parte istintuale. Una parte che lei per tutta la vita ha represso e che purtroppo esce, si sfoga, nel momento più sbagliato possibile. Dopo tanta repressione, la sua parte istintuale le è uscita troppo brutalmente ed è stata evidenziata in un atto atroce.
A.M.M. Quindi questa successione di eventi non si struttura sulla base di un rapporto dialettico tra il maschile e il femminile…
R.M. No. Riguarda lei. È un atto molto egoistico. Lei difende se stessa, lo fa per se stessa. Per questo non va in contrasto col fatto che poi si affida al direttore del manicomio, un altro uomo, che veramente ama. Quest’ultimo non la costringe al manicomio, ma attraverso degli impicci burocratici riesce a non farla andare in carcere, nella speranza ingenua e stupida che sarebbe stato in grado di difenderla. In realtà questo non avviene, perché la storia ci insegna che a quel tempo il vero potere, nei manicomi, non era nelle mani del direttore, il vero potere era nelle mani di chi viveva attimo dopo attimo lì dentro, quindi le infermiere o gli infermieri. Questo viene molto evidenziato nello spettacolo: ci sono due infermiere che prendono il sopravvento su di lui e sulle pazienti.
A.M.M. Quindi le vere carnefici sono le due infermiere?
R.M. Sono sia le carnefici che il collante delle vicende, perché senza di loro non ci sarebbe la scintilla che fa partire tutta la tragedia post-tragedia.
A.M.M. Che non sveleremo perché lo spettacolo non è ancora andato in scena! La violenza che G. prima compie, poi si trova a subire, sembra profilarla come un’eroina dal sapore classico. Leggendo in merito agli obiettivi di ricerca che la compagnia si prefigge, sembra emergere l’intenzione di voler rifunzionalizzare nel contemporaneo il teatro ripristinando il concetto di catarsi…
R.M. Oltre al binomio classico-catarsi, c’è un altro elemento chiave per la nostra ricerca: il rito. Ogni azione, ogni idea, ogni motore che fa partire le scene, lo riconduciamo sempre ad un rito. Nella vita tutti noi siamo governati da riti: il caffè la mattina è un rito, uno dei primi riti della giornata. Anche i modi di confrontarsi con la gente sono riti: parlo con te in un certo modo perché tu intervisti me ma se fossi mia amica io non starei parlando con te in questo modo…
A.M.M. Stai parlando di codici espressivi…
R.M. Sì, sono dei codici che noi ci autoimponiamo, che la società ci ha abituati ad usare. Li abbiamo trasformati in nostri rituali…
A.M.M. D’altra parte il teatro nasce da forme rituali, probabilmente non ha mai smesso di essere rito. Il nome che avete scelto per il vostro gruppo è non a caso “Compagnia delle origini”…
R.M. Infatti “Compagnia delle origini” vuole dichiarare il fatto che noi lavoriamo sul rituale, cose che altri non fanno. La prima forma rituale era quella sciamanica: il popolo che stava intorno a questo sacerdote, credeva, una volta indossata la maschera, che lui fosse qualcosa di più, una guida. La mia ricerca sul rituale è iniziata con la sconvolgente scoperta che molti sciamani diventavano tali consapevoli che durante l’esecuzione di quel determinato rito sarebbero morti. Sacrificare la propria vita a quel teatro che chiamiamo vita. Il teatro si chiama vita perché c’è gente che ci ha dedicato la vita. Gli sciamani morivano dopo giorni di danze e droghe, consapevoli di questo sacrificio, si immolavano volontariamente. Pochi oggi sono capaci di un tale sacrificio di sé ed emerge quando si va a teatro a vedere gli spettacoli.
A.M.M. Ritrovare una funzione sociale del teatro, in conformità se non altro alla tua personale prospettiva, sembra essere la tua principale prerogativa. Teatro come strumento deputato alla riflessione, finalizzato a muovere il pubblico al pensiero, spesso assente, poiché purtroppo lo spettatore è stato abituato ad accettare passivo standard troppo bassi. Di questo non darei completamente la colpa al pubblico, disposto ormai a fagocitare acriticamente qualsiasi cosa, la colpa è soprattutto del teatrante incapace per pigrizia o per incompetenza di stimolare al pensiero…
R.M. Anzi, è più colpa del teatrante, perché se la gente non va a teatro c’è un motivo: il teatrante contemporaneo non ha quell’esigenza che aveva lo sciamano di far credere qualcosa.
A.M.M. Tu stai affilando degli strumenti per rinnovare, rivitalizzare, la missione del teatro, del tuo teatro, anche da un punto di vista linguistico, ho letto. Come si sviluppa la tua ricerca espressiva? Quali sono questi strumenti funzionali a dar seguito alla missione ritrovata?
R.M. A meno che non mi servano delle competenze prettamente tecniche, le persone con cui metto in scena i miei spettacoli sono attori. Se devo inserire una danza, io preferisco che quella danza, seppur imperfetta, avvenga attraverso un corpo non abituato, non viziato dalla tecnica: io devo far ballare un attore. Abbiamo degli esempi, anche italiani, vicini a noi, di cinquanta, sessanta anni fa, di attori capaci di fare tutto, o se non erano preparati a farlo, si impegnavano a fingerlo e la gente ci credeva. Quando guardiamo film italiani con attori tipo Gassman, parliamo di un attore che a 360 gradi, a modo suo, le cose le faceva. Come lui molti altri. Adesso preferisco, nella situazione attuale, prendere una persona che si definisce “attrice” o “attore” e sperimentarla in ogni cosa. Ci sono alcuni pezzi in cui lascio libertà massima all’attore, ma ci sono frasi, parole, punteggiature, che vanno rispettate assolutamente. C’è stato un periodo in cui ho letto moltissimo, ultimamente lavoro sul campo cercando di mettere a frutto ciò che ho imparato, anche questo è un modo di studiare. Una volta ho provato per un giorno a vivere come un barbone, sono andato in giro come se lo fossi. Alcune persone si sono fermate a parlare con me e io provavo a parlare con loro. Il loro modo di interagire con me era totalmente diverso. Quelle micro-azioni che fanno con gli occhi, col volto, il loro modo di parlare, sono tutte cose che l’attore deve conoscere, perché se un’infermiera parla con una paziente o col direttore di un manicomio, il modo di parlare deve essere diverso.
A.M.M. Visto che hai parlato di rito, ed essendo il rito principio ordinatore del tempo, entra inevitabilmente in campo un altro elemento, indispensabile all’attore: l’orecchio, fondamentale al ritmo, scansione a sua volta dell’evento rituale. Questa precisione nell’espressione facciale o sonora, quando cioè parli dell’importanza della punteggiatura o del gesto che continui ad imporre all’attore, credo siano elementi riconducibili, tutti, ad un unico concetto, quello, appunto, di ritmo: concertazione ritmica del rito-spettacolo.
R.M. Sì. È una questione ritmica. Come la poesia, io la considero qualcosa che vive in una sorta di assenza di intenzione. La poesia arriva ad ognuno di noi in maniera completamente diversa.
A.M.M. La poesia è parola fisica, è musica e danza…
R.M. Se tu leggi "Cappuccetto Rosso", per quanto uno lo possa interpretare è sempre Cappuccetto Rosso. Se tu leggi la poesia di un autore contemporaneo o del passato, ognuno inizia a tirarci fuori immagini che solo ed esclusivamente lui può avere.
A.M.M. In merito alla missione ritrovata del teatro di cui parlavamo, dal tuo esordio ad oggi, oltre alla tua crescita personale, avverti anche una crescita da parte del pubblico? Stai vedendo dei risultati coerenti rispetto a questa missione che ti sei prefisso: di portare il pubblico alla riflessione e al pensiero?
R.M. Molti si sono rifiutati di venire a vedere i miei spettacoli.
A.M.M. Perché?
R.M. Perché a volte faccio vedere delle cose che li destabilizza. Questo mi fa stare veramente bene. Qual è lo scopo ultimo del regista? Suscitare delle emozioni. Il ribrezzo, lo schifo, il disgusto sono emozioni.
A.M.M. Che però arrivano prima della visione dello spettacolo. Se alcuni si rifiutano di assistere allo spettacolo non è di certo lo spettacolo in sé a schifarli, ma una specie di pregiudizio nato attorno al tuo modo di fare teatro. Come può essere efficacie uno spettacolo non visto?
R.M. Lo spettacolo è molto chiaro. Arriva e non viene condiviso, accettato.
A.M.M. Stai parlando però delle persone che accettano di venire non di coloro che si rifiutano…
R.M. Di quelle che “dopo” si rifiutano di venire: sono persone nelle quali io ho suscitato un certo tipo di emozione e che magari non erano mai andate a teatro prima; succede spesso per le compagnie off, la sala è piena di amici che ti fanno favori. Quando alcune di queste persone si sentono molto colpite e decidono di non venire più a teatro, io ho fatto il mio lavoro. Non mi interessa avere la sala piena, come non interessava a Carmelo Bene al tempo. Una missione è una missione.
A.M.M. Nel rifiuto del pubblico riesci a trovare motivi di crescita?
R.M. Assolutamente sì.
A.M.M. Il tuo pubblico era più tollerante all’inizio?
R.M. Sì, perché era la prima regia, la novità, la curiosità. Il primo spettacolo che ho fatto “Dissolvenze”, adattamento di “1984” di Orwell, è uno spettacolo da cancellare. Una persona sbadigliò rumorosamente. A distanza di tre anni la reazione del pubblico per un altro spettacolo era il pianto a dirotto. In quel momento ho visto la mia crescita. Da un altro spettacolo ancora la gente usciva barcollante, dicendo “non so se mi è piaciuto, però c’è, è rimasto”.
A.M.M. Hai anche notato come sono cambiati, come si sono affinati i tuoi strumenti dal tuo primo spettacolo ad oggi?
R.M. C’è un’attenzione diversa all’attore. Quando io mi sono imposto come regista ero soltanto un bastardo. Volevo che gli attori facessero quello che dicevo io, sbagliando, perché non avevo le competenze. Nel tempo ho capito che l’attore ha bisogno e deve avere molto più spazio all’interno della creazione artistica. Uno degli ultimi spettacoli, il “Diavolo Bianco”, non ha luci, non ha musiche e non ha quasi scenografia, è l’attore solo in scena, è uno spettacolo performativo. Io ho fatto la regia, il testo è del 1612, riadattato, ma poi in scena l’attore era completamente abbandonato a se stesso. Gli ho dato massima fiducia. Questo l’ho imparato nell’arco del tempo. Prima non lo facevo. Sono cresciuto con un maestro, beniano convinto. Anche io lo sono diventato. Tra me e Carmelo Bene c’è una differenza che non solo riguarda l’esperienza, si tratta di una distanza personale. Non voglio né posso essere Carmelo Bene, però rimane sempre nella mia testa. Mi ero posto, ingenuamente, come Carmelo Bene, poi ho iniziato a smussare. Una cosa mi è rimasta del mio maestro, importantissima, se una persona sbadiglia in sala io imparo molto di più che con uno scroscio di applausi. Il mio maestro mi ha detto che è più importante il fallimento del successo, perché almeno sai sicuramente cosa non fare.
Ringraziamo Riccardo Merlini per la sua disponibilità e cortesia, invitando i lettori ad assistere all’ultimo lavoro della “Compagnia delle Origini”, UCCELLI DEL PARADISO, in programmazione al Teatro Hamlet da lunedì 23 a mercoledì 25 gennaio.
Info:
UCCELLI DEL PARADISO
uno spettacolo della "Compagnia delle origini"
scritto e diretto da Riccardo Merlini
con Domizia D’Amico Alessia Sala Carlotta Sfolgori Antonella Petrone Valerio Macellari Francesca La Scala Lorenzo D’Agata
assistente alla regia Domizia D’Amico
foto di scena Andrea Mercanti
ufficio stampa Thèatron 2.0