Intervista a Patrizia Schiavo

Dalla carta al cinema, passando per il teatro. Il film “Enaiat, l’incredibile storia”, scritto e diretto da Patrizia Schiavo, e liberamente tratto dal libro di Fabio Geda “Nel mare ci sono i coccodrilli”, racconta la storia vera del piccolo Enaiatollah Akbari e del suo viaggio durato otto anni dall’Afghanistan all’Italia. Realizzato in collaborazione con Regione Lazio e con il patrocinio di Amnesty International, il film si configura come un originale esperimento di fusione fra teatro e cinema pensato in pieno lockdown e curato nella sua vestecinematografica da Persico Film.

Quella di Enaiat, raccontata di persona allo stesso Geda, è un’odissea durata circa otto anni, dall’Afghanistan, attraverso Pakistan, Iran, Turchia, Grecia e infine Italia. La storia di un ragazzino afghano che, per essere salvato, viene “abbandonato” dalla madre a soli dieci anni con tre regole di vita: non fare uso di droghe, di armi e non rubare. E così farà Enaiat, in un viaggio fatto di dolore e violenza, fatica e paura, ma soprattutto di speranza in un futuro dove trovare un giorno “un luogo da chiamare casa”. Un racconto straordinario, esemplare, dal grande potere di trasformazione personale e collettiva. “Con questa storia ho deciso di tentare una trasposizione cinematografica – racconta la regista e drammaturga Patrizia Schiavo – di avvicinarmi al linguaggio filmico, innanzitutto per lasciare un segno del tempo che stiamo vivendo e della nostra resistenza nel nostro teatro chiuso da un anno; la pandemia ci ha costretto ad allontanarci dal nostro pubblico e noi abbiamo cercato una nuova vicinanza.”

Di seguito l’intervista alla regista:

Da che bisogno è nata questa drammaturgia?

Nasce dal mio bisogno atavico di lavorare sul teatro necessario. Da quando ho cominciato tutto il mio percorso nel 1994, quando fondai la mia compagnia in Svizzera, attorno ai 25/26 anni ho sentito il bisogno di autonomia creativa per andare verso un teatro, appunto, necessario; dover per necessario intendo rispondere a un'urgenza sociale, che spinge, che muove e che anima che dà la forza di raccontare un mondo vero. Un bisogno che ho sentito anche nel riscrivere i classici, per riattualizzare e ridare forma alle grandi storie.
La storia di Enaiat la trovo assolutamente necessaria perché purtroppo continuiamo ad assistere ai naufragi, alle morti, agli sbarchi, a navi stipate di essere umani stremati alla ricerca di un nuovo luogo da chiamare casa. Persone che hanno dovuto affrontare mille peripezie come dicono Enaiatollah Akbari e Fabio Geda nel romanzo rischiando continuamente la vita, lavorando come veri schiavi, pagando somme di denaro enormi. Purtroppo, c'è ancora molta indifferenza (se non addirittura intolleranza) nei confronti di questa umanità migratoria che fugge da guerre, fame e disperazione.
La cosa che mi ha colpito di questo romanzo è che il protagonista sia stato mosso da un sogno particolare, che non era il semplice bisogno di sopravvivere, ma il sogno di studiare, il sogno di andare a scuola. Sogno che è diventato così prepotente in lui perché ha assistito da bambino alla drammatica uccisione del suo maestro e del preside ad opera dei talebani rei di essersi rifiutati di chiudere le scuole. Quindi una sorta di sete di giustizia. Gli ultimi fatti di cronaca che ci raccontano quello che è successo appena qualche settimana fa è una situazione che perdura nel tempo. C'è stato un crescendo dagli eventi dell'11 settembre. Il problema è che non è cambiato quasi nulla e la situazione anzi, peggiora.

Questo film è una sorta di teatro di posa. Quali sono state le difficoltà tecniche che hai trovato a realizzare un'opera che narra di un fenomeno errante all'interno di un teatro comunque piccolo.

Le difficoltà sono state molte. Sono stati ricostruiti tutti i numerosi set all'interno degli spazi del Teatro Città, il che è stata una bella sfida. Abbiamo elaborato tutti gli escamotage e i meccanismi teatrali a noi noti. Un'operazione faticosa, ma allo stesso tempo molto creativa. Il risultato è stato quasi felliniano. Io ho iniziato a creare questa drammaturgia per il teatro. E ho lavorato con gli attori per la realizzazione teatrale. Quindi già nella drammaturgia la sintesi dell’opera letteraria (che poi è piaciuta molto a Fabio Geda), favoriva tutti i momenti narrativi che non hanno risentito troppo della mancanza di spazio. Ho cercato di raccontare questo itinere straordinario restando… ferma!
Il romanzo è talmente denso e ricco di azione che non è stato facilissimo farne una sintesi, ma la vera sfida è stata quella di scegliere tutto ciò che era teatralmente rappresentabile.
Nel momento in cui ho immaginato e progettato questa fusione con il linguaggio filmico, mi sono ovviamente reinterrogata sulla drammaturgia che avevo scritto, ma ho trovato che non dovesse essere cambiato granché, se non modificare l'impostazione del racconto. Mentre nello spettacolo da vivo avevo immaginato tutti i momenti narrativi rivolti al pubblico da proscenio, in quello filmato li ho mutuati come fossero un'intervista in primo piano. E credo sia stata un'ottima intuizione perché oltre a dare ritmo al racconto, coinvolge lo spettatore in prima persona, guardando e parlando direttamente alla telecamera.

Questo spettacolo è stato indirizzato soprattutto a giovani e agli studenti. Il tuo intento è quello di sensibilizzare le nuove generazioni?

Indirizzarlo agli studenti delle scuole è stato naturale perché "Nel mare ci sono i coccodrilli" è un best seller, un testo adottato in pianta stabile da più di dieci anni dalle scuole del territorio nazionale. Continua a vendere molte migliaia di copie l'anno, un fenomeno letterario unico nel suo genere. Non è effettivamente un romanzo solo per ragazzi, ma un prodotto adatto a tutti. Però non voglio limitarmi a parlare esclusivamente ai ragazzi. Il bisogno è certamente di trasferire ai giovani l'importanza di questa storia come emblema di quello che accade oltre i nostri confini, far conoscere loro Enaiatollah come simbolo di coraggio, di resilienza, di integrità morale. Questa storia vera ha davvero connotazioni quasi da mito, ha un sapore epico e leggendario. Diventa per questo un racconto senza tempo, un'Odissea del duemila.

Enayath è stato interpretato da Antonio de Stefano, il quale è riuscito ad evocare il personaggio del romanzo che è un bambino. Che tipo di lavoro hai fatto con lui?

Antonio è un attore con il quale collaboro dal 2013. Fa parte della mia compagnia ed è un professionista talentuoso che amo moltissimo e con il quale c'è una grandissima sintonia artistica. Il lavoro sul personaggio c'è stato ed è stato lungo, in qualche modo abbiamo viaggiato su un sentire comune. Anche Antonio come me è mosso dal bisogno di raccontare storie universali, necessarie, anche lui è molto sensibile all'impegno civile. Non mi sono preoccupata di lavorare sul bambino (avremmo rischiato un effetto patetico) non abbiamo quindi tentato di rimpicciolire il personaggio durante l'interpretazione: per ricreare l'innocenza del bambino abbiamo lavorato sulla capacità di Antonio di sorprendersi. L’intuizione era quella giusta, il risultato è credibile.

Pensi di doppiare questa esperienza e rifare un progetto simile a questo?

Per me è stata un'esperienza molto significativa, molto importante. Quando ho iniziato non avevo messo in conto le difficoltà di realizzazione di quest'opera, anche l'aver creato una nostra piattaforma on demand (https://www.teatrocitta.org/) dove è visibile il film. Non è facile trovare una storia altrettanto forte e significativa però mi auguro di poterla scovare e di poter ripetere l'esperienza.

Alla luce degli ultimi avvenimenti in Afganistan il tuo film ha più che mai una valenza attuale. Cosa dovrebbe fare secondo te l’Union Europea?

Il mio film è ancor più, drammaticamente attuale, si, ma non me ne compiaccio. Sarebbe stato attuale 50, 70,100 anni fa e lo sarebbe tra 100 anni, purtroppo, anche senza l’orrore che sta vivendo in questi giorni, in queste ore l’Afghanistan. Oggi mi provoca addirittura un certo fastidio parlare del film; in relazione all’attualità, mi appare quasi una favola, sebbene sia tratto dalla storia vera di Enaiatollah Akbari, che venerdì 20 agosto era tra gli altri su RAI3 a lasciare la sua drammatica testimonianza e a lanciare il suo appello: “Fate in modo che i bambini afgani possano ancora andare a scuola! Studiare!”.
Dall’Unione Europea non so cosa aspettarmi. Mi sembra inverosimile quello che sta accadendo. Se avessero speso meno tempo e soldi a fare la guerra, più tempo a cooperare forse ora l’Afghanistan sarebbe un paese civile o addirittura una grande Svizzera come diceva Gino Strada. Alimentando l’utopia mi aspetterei che i corridoi umanitari di cui tanto si sta parlando, permettano a quanti più civili, donne e bambini innanzitutto, di lasciare l’Afghanistan, ed anche se può sembrare facile a dirsi mi chiedo perché non è già stato fatto, perché non è stato fatto prima che si arrivasse a tutto questo. Da quando si è iniziato a parlare del ritiro americano e poi delle forze Nato, ne è passato di tempo; sarebbe stato più semplice, si sarebbero potute salvare molte vite, evitare le stragi nelle scuole, negli ospedali, negli orfanotrofi e gli assalti disperati agli aerei, per cercare una possibilità di salvezza. Ora temo sia già troppo tardi.
Dopo la tragedia dell'11 settembre, con la coalizione internazionale per neutralizzare Bin Laden, si è pensato ingenuamente di salvare il mondo dal terrorismo, sono stati spesi molti soldi per armi che hanno ucciso centinaia di migliaia di civili, alimentando il pensiero che afgano fosse sinonimo di fondamentalista. Ma i fondamentalisti sono ovunque nel mondo, i Talebani non sono tutti afgani, sono una rete potente di uomini programmati ed organizzati per odiare, punire, torturare, uccidere. Dalla caduta dei talebani nel 2001, sono passati 20 anni, forse pochi per creare e diffondere istruzione, evoluzione, emancipazione femminile, in un paese così povero, arretrato, disunito. Eppure, vent’anni non sono pochi per alimentare un concetto di stato, di bene comune, di democrazia. Troppa arroganza, troppi conflitti di interessi. Ci voleva più tempo, forse. La democrazia non si può imporre né pretendere in paese così diviso, arretrato e oscurato dalla cultura islamica. Eppure, è incredibile pensare che questi 20 anni non siano serviti a niente, non solo, si stia tornando indietro; i talebani sono ora più forti di prima, pronti a sterminare nuovamente la minoranza hazara, gli sciiti, chi ha i tratti somatici mongoli, chi indossa una t-shirt a manica corte o chi si rifiuta di nascondersi di nuovo dentro un burqa. Rastrellando casa per casa, in cerca di traditori, attivisti e collaborazionisti, sequestrano computer, cellulari, coprono di vernice nera i volti sorridenti di donne nelle vetrine… stanno prendendo in mano l’intero Paese facendolo ripiombare nel suo mostruoso Medioevo. Come si fa ad arrestare tutto questo. Di nuovo bombardando un paese già distrutto da secoli di conflitti e devastazioni?

Le donne afgane stanno per essere schiacciate da un regime medievale che ne impedirà ogni tipo di libertà. I quanto donna, qual è il tuo pensiero su questa vicenda?

“I talebani sono ignoranti, ignoranti di tutto il mondo che impediscono ai bambini di studiare. Perché temono che possano capire che non fanno ciò che fanno nel nome di Dio, ma per i loro affari!”, questo è il grido che lancia il maestro di Enaiat ne “Il mare ci sono i coccodrilli”, prima di venire ucciso dai Talebani perché si oppone alla loro intimidazione di chiudere la scuola.
In questi vent’anni di occupazione militare ci sono stati, sul fronte dell’istruzione e dell’emancipazione femminile, dei piccoli passi avanti: la possibilità per le bambine di andare a scuola e per le donne di evitare qualche condanna a morte, senza processo, per presunto adulterio e cominciare ad essere considerate nel mondo del lavoro. Sono arrivati i cellulari. Internet e la televisione hanno permesso di far arrivare notizie e diffondere la conoscenza di un altro mondo, assai diverso dall’Afghanistan. Conquiste importanti per il Medioevo afgano che ora rischiano di essere spazzate via; le donne, anche le più giovani e consapevoli, avviate verso la luce dell’emancipazione, tutte di nuovo dentro il burqa, torneranno ad essere stuprate senza pietà e le ragazze diventeranno “bottino di guerra”. Già si vocifera di divieto per le donne di tornare a studiare e lavorare, di liste di donne single o vedove, di imporre matrimoni a bambine dodicenni. Del resto, la donna nella cultura islamica è considerata un essere inferiore si sa, una minorata nella ragione, spesso vittima rassegnata di violenze e abusi domestici inflitte dai propri mariti e familiari. Periodicamente assistiamo a fatti agghiaccianti che riguardano famiglie islamiche che vivono ormai da anni nel nostro paese, ma questo non basta a contaminarle con la nostra idea di civiltà ed impedirgli stragi di figlie e di mogli. C’è da dire che la violenza sulle donne purtroppo non conosce confini né geografici, né religiosi, né culturali. La donna continua ad essere vittima di una cultura maschilista e patriarcale nel mondo ad ogni latitudine, ma l’Afghanistan è stato definito il posto peggiore in cui nascere donna. Nel 1977 fu fondata un’organizzazione femminista a Quetta, in Pakistan, per l’emancipazione femminile, che dopo l’arrivo dei Talebani negli anni ’90, ha continuato a lavorare in clandestinità: Rawa, Associazione rivoluzionaria donne dell'Afghanistan. Anche Pangea ed altre organizzazioni hanno realizzato in questi anni progetti importanti per contribuire a creare dignità, consapevolezza e fiducia, ed aiutare le donne a compiere passi importanti verso l’emancipazione. Passi lenti, ostacolati dalla paura, dalla povertà, dall'incertezza per il futuro, dalla violenza e dagli omicidi. Ciononostante, ci sono oggi coraggiose attiviste in Afghanistan che stanno protestando con i cartelli in mano, altre sono già ricercate e costrette a nascondersi.
Ma i Talebani non sono gli unici responsabili. Sono responsabili tutti i paesi che hanno sfruttato e attaccato l’Afghanistan, tutti quelli che non hanno avuto il coraggio di opporsi alla guerra, tutti i governi che con loro hanno fatto accordi di ogni tipo, non ultimi quelli legati al traffico di droga, sulla pelle di una popolazione fragile, divisa, inerme; povera e soggetta alla corruzione. Vittima di una cultura oscurantista, razzista, violenta, profondamente ingiusta.

Link al trailer del film: https://www.youtube.com/watch?v=ReLYyttwpV8

Info:

un film liberamente tratto da
Nel mare ci sono i coccodrilli – storia vera di Enaiatollah Akbari di Fabio Geda
Regia e Drammaturgia: Patrizia Schiavo
Con: Antonio De Stefano, Paolo Madonna, Eugenio Marinelli, Jacopo Mauriello, Patrizia Schiavo
Aiuto regia: Sarah Nicolucci
Versione Cinematografica a cura di Persico Film
In collaborazione con la Regione Lazio
Con il patrocinio di Amnesty International

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