Intervista a JACOPO VENTURIERO in scena con Cock al Cubo Teatro il 28 e 29 gennaio

Raggiungo telefonicamente Jacopo Venturiero, attore romano che sarà in scena con Cock al Cubo Teatro il 28 – 29 gennaio per la rassegna Schegge, per fare due chiacchiere sullo spettacolo diretto da Silvio Peroni, con cui hanno girato alcuni teatri italiani negli scorsi 4 anni e che arriva a Torino dopo una sosta di un anno.
È stata l’occasione per approfondire lo spettacolo e scoprire qualcosa di più su un attore giovane ed ecclettico.

Paolo Ferrara P.F. – Cock è uno spettacolo di Mike Bartlett, drammaturgo inglese: come è nata la scelta, la voglia di portarlo in Italia?

Jacopo Ventutiero – Tutto nasce dal regista dello spettacolo, Silvio Peroni, che ha la prerogativa di riscoprire e portare in Italia drammaturgia teatrale inglese. Lui fa soltanto testi inediti in Italia, che vengono tradotti per lui. Drammaturgia inglese perché gli inglesi hanno una scuola pazzesca alle spalle. Sanno veramente scrivere e restituire la vita sulla scena. È una prerogativa molto forte che hanno loro. Anche gli americani, ma gli inglesi soprattutto. I testi che finiscono rappresentati sono la selezione di tantissimo studio… qui in Italia, domani mi sveglio e scrivo perché ho avuto questo “estro”… lì invece gli autori vengono allevati e solo i testi migliori vengono rappresentati, quindi un testo che esce è già un ottimo testo. In più Silvio è molto attento ai testi vincitori di premi e in linea di massima nei paesi anglosassoni un testo che vince premi importanti è un testo qualitativamente importante. I drammaturghi inglesi hanno questa capacità incredibile di saper far parlare i personaggi e saperli fare agire… sembra la scoperta dell’acqua calda, ma non lo è per niente. Hanno la capacità di carpire il linguaggio delle persone nella vita reale e metterlo sulla scena, che è la cosa più difficile. Che noi non abbiamo: noi abbiamo gli spiegoni, sa… Quello che volevo dire è che Cock non è un eccezione: Costellazioni, che abbiamo finito adesso è di Nick Payne (n.d.r. vedi la recensione di Antonio Mazzuca su COSTELLAZIONI). Stesso discorso: è stato tradotto per Silvio. Ora a Marzo faremo un’altro spettacolo, The Aliens: stavolta è un’americana, che ha vinto il pulitzer… ha 35 anni e ha vinto il Pulitzer… si è spostato oltre oceano ma sempre in territorio anglofono. Insomma Silvio sta portando avanti questa “linea” artistica.

P.F. – Nello spettacolo si parla di omosessualità…

J.V. – In realtà lo spettacolo viene interpretato come un testo sull’omosessualità, ma più che un testo sulla crisi dell’identità sessuale è un testo sulla crisi d’identità. La storia è quella di questo ragazzo che vive da dieci anni con un uomo più grande di lui, che un giorno incontra una ragazza di cui si innamora. Lui non sa più non tanto se gli piacciono gli uomini o le donne, bypassa questo ostacolo, perché il punto è che non riesce più a capire chi è. Perché devo definirmi?, si chiede. In questo testo la coppia omosessuale è quella borghese, quella data per assodata. Qui la norma è la stabilità omosessuale, normalmente attribuita alla coppia eterosessuale, poi è tutto il resto che arriva a sconvolgere. Tra l’altro, ecco una delle cose incredibili che fa questo autore, il protagonista, quello che vive la crisi di identità, è l’unico ad avere un nome, si chiama John. Gli altri non hanno nome. È un ribaltamento totale, su tutti i livelli. Alla fine arriverà una cena… nella terza parte dello spettacolo, il mio personaggio (io interpreto l’uomo più grande) deciderà di organizzare una cena dove sarà invitata anche lei, e sarà una vera e propria lotta tra galli. Infatti il titolo, Cock, rimanda sia al membro maschile che al gallo. John è la personificazione dell’indecisione, dell’ignavia, io (il mio personaggio) so che non prenderà mai una decisione, quindi chiamo in soccorso mio padre, un uomo di origini umili, che a stento è riuscito ad accettare il fatto che io fossi omosessuale, il quale userà giustificazioni in mia difesa che faranno emerge tutte le ipocrisie e gli stereotipi  sull’omosessuale. Insomma ci sono tanti livelli, è molto interessante.   

P.F. – State portando avanti lo spettacolo da diverso tempo… quel’è stata la risposta del pubblico allo spettacolo?

J.V.– Molto buona. Il fatto che seguano la storia e credano a tutto quello che vedono, nei limiti della sospensione dell’incredulità, che vedano qualcosa accadere sul palcoscenico e che scambino quelle cose per vero, o meglio verosimili, nonostante sul palco non ci sia nulla, è una grande vittoria. Sembra si tratti una scelta registica ma in realtà l’autore nella prima pagina del testo chiede espressamente che non vengano usate né scenografie, né oggetti, né costumi particolari, perché l’azione deve concentrarsi unicamente sull’azione drammatica. Quindi, in scena noi non abbiamo niente. E non è un allestimento povero perché non abbiamo risorse… anche se certamente aiuta la circuitazione. Il testo in realtà è ambientato in tantissimi posti diversi, in metropolitana, a casa di lui, a casa di lei… vedere il pubblico aderire allo spettacolo, senza l’appiglio di nulla, è la cosa più incredibile. Vedere il pubblico che segue la storia, che è anche molto avvincente e anche molto divertente… questa è la sfida e funziona sempre molto bene. Alla fine ci dicono: vedevamo tutto, la cena, le cose… Abbiamo soltanto un quadrato disegnato sul palcoscenico, che è un po’ come un ring, o un arena per un combattimento tra galli, c’è un po’ di segatura per terra che richiama anche un po’ quello, ma non c’è nient’altro. Ma il pubblico sta lì e accetta di credere che quello che succede in quell’ora e mezza di spettacolo sia vero.  

P.F. – Per voi attori lavorare con queste assenze com’è stato?

J.V.–  Di primo acchito può sembrare una cosa molto complicata, ma qui c’è il grande valore del regista, qui devo fargli una sviolinata. Lui non ama un teatro di regia come lo intendiamo noi, lo dimostrano questi testi, ma intende la regia come regia sugli attori, sulla recitazione, come vogliono queste drammaturgie anglosassoni. Sono così studiate bene le relazioni e i dialoghi tra i personaggi che non c’è bisogno di nulla. Tutto è veramente giustificato, non ci sono forzature, cose formali… è talmente approfondito a livello drammaturgico in azione e reazione nei dialoghi che non ti serve altro. E Silvio ha una capacità di lavorare su questi testi che è infinita. Poi lo spettacolo non è mai “pronto”. Noi lo portiamo avanti da quattro anni, e ogni volta proviamo e ogni volta cambia, perché cambiamo noi ovviamente. Si perfeziona in modo continuo. Lui poi segue lo spettacolo anche come tecnico, tutti i giorni con noi. Quindi tutti i giorni lo spettacolo viene riprovato, in una prova che lui dice “autistica”… semplicemente prima dello spettacolo ti fa ripetere velocemente i passaggi senza quasi dire le battute, un po’ come fanno i ballerini che puntano il piede per ricapitolare il percorso. Quindi è un lavoro continuo, non è il classico lavoro che conosciamo noi, dove fai un mese di prove e lo spettacolo parte…

P.F. – Visto che fate qualcosa a cui, come dici tu, non siamo abituati nei nostri circuiti teatrali, avete trovato difficoltà a portarlo in giro?

J.V. – No, per niente, perché semplicemente, quello che fa Silvio è un po’ la scoperta dell’acqua calda. Noi portiamo una storia alle persone. Quello a cui siamo abituati noi è fumo negli occhi, grandi scenografie… per carità non voglio generalizzare troppo… però diciamo che spesso ultimamente si fanno rivisitazioni, le variazioni sul tema quando ormai il tema non lo conosce più nessuno. Io vado a fare la versione particolare di Amleto presupponendo che tu sappia perfettamente l’Amleto, ma nessuno conosce più niente. Semplicemente questo tipo di drammaturgie racconta storie. In Inghilterra è così, la gente va a vedere testi sconosciuti, anche appena usciti, come noi andiamo al cinema. Noi raccontiamo una storia cercando di farlo al meglio con il lavoro che ci mettiamo dietro, e la gente non può che partecipare, perché si ritorna alla sostanza del teatro, cioè un attore che racconta una storia ad un pubblico. Sempre più spesso si vedono attori, non per colpa loro ahimè ma per colpa di un regista superuomo con una sua visione critica del lavoro, che al pubblico non comunicano nulla. Per carità, ci sono ottime cose e io ho fatto una grande generalizzazione, però la tendenza è questa. Non si dice più nulla. Vai a teatro e dici “non ho capito niente”, anzi, se non hai capito nulla, forse è perché è bello… è una distanza museale che il teatro ha creato con il pubblico. “È noisoso, ma io non me ne intendo”… ma non è una cosa da intenditori, il teatro è una cosa per la gente! Purtroppo in Italia il teatro è questo, un posto dove ti fai due palle così e vuol dire che è molto bello. Tu non lo hai capito perché ti occupi di altro, però se ti sei annoiato va bene. E lo dico con molta amarezza, perché è il mio lavoro.

P.F. – Quali sono i vostri prossimi progetti?

J.V. – Questo spettacolo noi pensavamo di averlo finito l’anno scorso, ma adesso abbiamo questa parentesi torinese di due date e speriamo di poterlo fare ancora. Per il resto, abbiamo finito, io e un’altra attrice, Aurora Peres, un altro spettacolo meraviglioso che si chiama Costellazioni, di Nick Payne, che speriamo di fare il prossimo anno. Lo spettacolo, sempre di Silvio Peroni, che debutterà a Marzo, si chiama The Aliens, che in realtà è un dittico. Quello dove sono io è The Aliens, mentre l’altro si chiama The Flick, e sono tutti e due di questa autrice americana di cui parlavamo prima, che ha vinto il premio Pulitzer nel 2014, Annie Baker. Debutteremo a Milano al Teatro dei Filodrammatici, dove per altro abbiamo debuttato sia con Cock che con Costellazioni. Insomma siamo di casa. Milano, parentesi, è molto sensibile alla drammaturgia contemporanea, è una piazza molto ricettiva dal punto di vista teatrale. Ha anche teatri che hanno saputo allevare un proprio pubblico e a differenza di altri posti come Roma, tu vedi la gente che va lì, desiderosa di andare a vedere uno spettacolo. Insomma, un pubblico normale, non di addetti ai lavori o di amici. Questi sono gli impegni con Silvio. Poi io continuo per conto mio con altre cose.
Nella mia pagina di facebook metto tutte le cose che faccio in giro:
https://www.facebook.com/Jacopo-Venturiero-186443758207671/?ref=ts&fref=ts

P.F. – Visto che hai accennato ad altre cose tue… da un paio di anni fai anche doppiaggio. È stata una scelta legata alla necessità o è una cosa che volevi fare?

J.V. – A me ha sempre affascinato il mondo del doppiaggio, fin da quando ero piccolo. Mi ci sono affacciato timidamente quando avevo quattordici, quindici anni, poi sono tornato a vent’anni. Solo che una volta che mi sono diplomato all’Accademia Silvio D’Amico di Roma, ho cominciato subito a lavorare in teatro. Ho beccato, diciamo, l’inizio della fine del teatro italiano, quindi partivo ad ottobre e tornavo a maggio, aprile… non c’ero mai. Il doppiaggio impone però una certa frequenza, soprattutto all’inizio. Se quando ti chiamano non ci sei, è difficile che tornino a chiamarti, giustamente. E quindi mi sono un poco allontanato da questa cosa. Io poi ho sempre voluto fare l’attore quindi andava bene così. Da un paio d’anni a questa parte che il lavoro è diminuito, non tanto perché si lavora poco ma perché per statuto non ci sono più le turnè, gli stabili fanno scambi che durano 20 giorni un mese al massimo. È finita quell’epoca in cui, anche se non eri famoso, vivevi di turnè di 6 mesi l’anno tutti gli anni. Quindi mi sono riaffacciato. Diciamo che la necessità ha colmato un desiderio che comunque ho sempre avuto. Fare le cose che non mi piacciono proprio non ci riesco, quindi… Devo dire che sono stato anche fortunato, grazie ad Alessandro Rossi che è un direttore straordinario che mi ha dato tantissima fiducia da sempre e ha cominciato a darmi molti ruoli. Ho fatto Steve Jobs con lui, Snowden.. Adesso esce a febbraio 50 sfumature di Nero dove doppio il protagonista(ride)… Ecco, diciamo che in due anni cominciare a doppiare i protagonisti per me è stata una bella sorpresa, e anche fortuna. L’attore è il mestiere che voglio fare sopra di ogni altra cosa, però alternarlo con il doppiaggio mi piace. Poi non voglio fare solo il doppiaggio. Riuscire a fare un po’ tutto è una cosa che mi piace. Adesso sto facendo un audiolibro, un’altra cosa ancora. In quest’epoca in cui non ci sono più le turnè totalizzanti non è male fare un po’ di tutto.

Ringraziamo Jacopo Venturiero, ma anche i suoi colleghi sulla scena Sara Putignano, Fabrizio Falco, Enrico Di Troia,  invitandovi a scoprirli sul palco.

image_pdfSCARICA QUESTO ARTICOLO IN FORMATO PDF