Elena Arvigo, attrice in EDIPO RE e EDIPO A COLONO, è in scena al Teatro Eliseo di Roma dal 31 gennaio al 12 febbraio per la regia di Andrea Baracco e Glauco Mauri. Abbiamo incontrato l’attrice, moglie e madre nel primo spettacolo (Giocasta nell’Edipo re) e figlia (Antigone nell’ Edipo a Colono), curiosi di conoscere i retroscena creativi legati ai suoi personaggi nelle due tragedie di Sofocle e il processo di creazione che dà vita alla sua personale attività artistica.
Paola Musollino (P.M.) – Elena Arvigo, un’attrice completa e versatile, costantemente in viaggio in senso letterale e metaforico. La tua carriera artistica inizia da giovanissima così come il tuo interesse per l’animo umano e per l’uomo. Cosa ti spinge nel tuo lavoro e nella tua vita a “fare ricerca”, cioè, cosa ricerchi costantemente nella tua formazione?
Elena Arvigo (E.A.) – Credo il fatto di comprendere meglio, di tradurre meglio me. L’essere umano è sempre stato il mio interesse. Prima di fare l’attrice, mi ero iscritta all’università per fare Psicologia. Si dice che queste cose nascano da una ferita. Effettivamente io vengo da una famiglia molto bella ma molto, come dire, irrequieta, in cui anche da bambina uno dei miei ruoli era quello di fare da traduttrice fra mio padre, mia madre… di fare la traduzione delle cose. E così, quando leggo un libro, penso subito a come poterlo rappresentare, a come poterlo fare. Da piccola avevo un teatrino, mi piaceva raccontare le storie, perché attraverso le storie, come racconta anche Amleto, noi vediamo molto chiaramente tutte le ingiustizie che accadono nelle altri parti del mondo, lontano, però magari le cose che accadono vicino a te fai proprio fatica a vederle perché hai più schermi, più protezioni. E’ sempre stata una mia curiosità cercare di comprendere meglio.
Sicuramente c’è sempre stata in me una parte un po’ da Antigone, nel senso che se c’era una bambina che tutti prendevano in giro io ero sempre stata quella che faceva caos, che difendeva, ma anche con quello spirito egocentrico, non voglio dire che ero buona. E fare l’attore è comunque "ascoltami, guardami". Negli anni questo “ascoltami, guardami” deve diventare “ascoltate, guardate”/“ascoltiamo, guardiamo”. Un egotismo, un egocentrismo che, anche se nasce da una timidezza, da una ferita, però a un certo punto esce fuori, altrimenti diventa narcisismo ed è molto pericoloso, noioso. La responsabilità verso gli altri è importante. Nelle storie “civili” che ho affrontato, come Politkovaskaja, Chernobyl (Monologhi dell'Atomica), io cerco sempre di chiedermi: “Elena, cerca di essere veramente onesta intellettualmente rispetto al lavoro, ad una storia, ad un personaggio, perché quando fai teatro sei davanti a delle persone, ed è molto importante essere responsabili verso di loro”.
P.M. – La storia di Edipo è in un certo senso la storia dell’uomo: la ricerca della propria verità. Una sete di conoscenza che sarà contrastata dall’inesorabilità del castigo e dalla cecità del fato. Per un’attrice cosa significa la ricerca della verità? E qual è il “limite”, la linea di confine da non superare per cadere nella hybris?
E.A. – E’ complessa la hybris, la colpa. Con Giocasta, (in questo caso si parla dell’Edipo re) ho cercato di lavorare su una linea di confine fra il conscio e l’inconscio, col presagio, col sapere e il non sapere, in modo che questo senso di colpa dell’uomo, che poi credo che sia quello che viene fuori dalla storia, si intuisca già. In fondo, Edipo sa già, Giocasta sa già. C’è un processo di conoscenza dove la verità è molto evidente sin dall’inizio, anche per il pubblico, anche per quello di 2500 anni fa. Ciò che è interessante è vedere come l’uomo gestisce questa verità, questa conoscenza. E’ un terreno fertile per delle riflessioni sull’uomo (anche Freud c’è andato a nozze): quanto sa l’uomo di se stesso, quanto non può sapere, quanto non può avere accesso quotidiano e continuo con la verità di sé, perché non gli permetterebbe di andare avanti.
Il monologo di Giocasta è incredibile quando dice: “Molti uomini si sono uniti alle loro madri nei sogni, ma chi dà meno importanza a queste cose resiste meglio alla vita”. Come dire, se tu indaghi troppo sul perché, su quest’unione con la madre, se vai troppo a fondo resisti meno alla vita. Cosa vuol dire resistere meno alla vita? Soccombi. Bisogna stare un po’ anche sulla superficie per poter sopravvivere. Il senso di colpa è il centro dell’Edipo re. Trovo che ci siano delle comunanze con l’albero della conoscenza…siamo 400 anni prima di Cristo, non c’è niente di cattolico, eppure c’è qualcosa nell’uomo, questo senso di colpa del sapere. E il femminile spesso sa già. Giocasta sa già da quando Edipo le dice di Tiresia, ci sono dei presagi. Credo che anche noi, dopo circa 2500 anni, viviamo molto nel presagio delle cose, cioè le sappiamo. Uno dei valori del rifare un testo così è proprio verificare come le questioni fondamentali dell’essere umano siano rimaste le stesse: l’uomo (chi è), la verità, il libero arbitrio, Dio, le divinità. I ruoli sono incastrati (madre, moglie, figlia, figlio, marito, padre) ma la persona è sempre la stessa, l’essere umano è complesso. Non c’è una vera soluzione alla vita se non continuare ad interrogarsi, a rappresentarla.
P.M. – In questo spettacolo sarai Giocasta, madre e moglie prima e poi figlia, Antigone. Com'è stato per te attraversare i tre archetipi femminili? Quale tra questi ha maggiormente “scosso” il tuo inconscio?
E.A. – Sicuramente Giocasta, perché non me lo aspettavo. Antigone l’ho affrontata, Politkovaskaja, ad esempio, lo è. E mi ha attratto tantissimo perché è un po’ guerriera, è forte, ed affronta la differenza tra legge e giustizia. Giocasta era in una zona d’ombra per me, nel senso che per età non l’avevo mai considerata. Un’attrice solitamente pensa a Nina, a Ofelia, ai grandi archetipi, però Giocasta appartiene ad un’altra sfera. Lei è un grande ventre che raccoglie tantissimi archetipi, tra i quali secondo me anche Ofelia e anche Gertrude. Raccoglie il femminile in maniera incredibilmente accogliente ed è un archetipo molto forte e molto dolce. Nella mia rappresentazione astratta lei era un po’ cattiva, un po’ arcigna, un po’ una Lady Macbeth, un po’ strana. In realtà, ha ancora un amore fortissimo per il marito, per Laio, che si rinnova in Edipo, e poi si toglie la vita. La cosa di cui sono felice e che cerco di fare è una Giocasta forte ma non per questo aggressiva. In lei il senso di colpa agisce in maniera veramente profonda. E anche qui, come nell’Amleto in cui io trovo ci siano un sacco di affinità, chi si toglie la vita, chi ci rinuncia, è il femminile…è come se fosse più veloce ad andare dall’altra parte. Come nel V atto dell’Amleto (dove c’è una parte esoterica fortissima) è Ofelia quella che si uccide. Anche Carmelo Bene lo diceva, lei (Ofelia) fa quello che Amleto dice. Dice di essere pazzo, in realtà fa finta, lei, invece, diventa pazza davvero. Bergman fece un Amleto in cui Ofelia era presente sempre in scena, camminava dietro un tulle per tutto lo spettacolo a passi piccolissimi e vedeva tutto. Era interessante perché il suo impazzire in realtà era dovuto al fatto che aveva visto tutto, e chi è testimone di tutto non può che essere allibito. E anche Giocasta, in fondo, è testimone di tutto: lei sa, ha vissuto Laio, ha avuto il bambino, sa che Laio lo ha fatto ammazzare, sa degli oracoli, dell’indovinello della Sfinge. Le ha vissute tutte, e alla fine, pur cercando di fare sempre la cosa migliore, la tragedia a un certo punto si compie. E questo è il destino dell’uomo.
P.M. – A proposito di ruoli femminili e di ricerca di verità, ti abbiamo vista lo scorso anno al Teatro Argot nelle vesti di Anna Politkovaskaja, in memoria della giornalista russa, attivista per i diritti umani, in “Donna non rieducabile”, scritto da Stefano Massini. Quali diritti umani saresti disposta a difendere in nome della tua verità di attrice di teatro civile? Quali sono i temi che più ti toccano?
E.A. – Come attrice mi interessano le storie. I miei progetti nascono sempre da una mia voglia di scegliere le storie da raccontare e sono sempre stata attratta da storie femminili, forse perché sono una donna molto banalmente. La bellezza del teatro per me è che racconta storie piccole, specifiche. Di Svetlana Aleksievic Anna Politkovaskaja, mi ha interessato la capacità di ascolto che avevano delle storie, al di là dell’atto politico: il muovere i piedi, l’andare dalle persone. Anna andava in Cecenia e raccontava storie che se non avesse raccontato lei non avrebbe raccontato nessuno; la stessa cosa l’Aleksievic andava col suo registratore, come fai tu adesso, ascoltava le storie, le sbobinava, le scriveva. Io trovo che sentire le storie delle persone ci avvicina agli altri e alle loro storie, come diceva anche Eugenio Barba, “che il teatro debba unire culturalmente”. Nei progetti che metto in scena, ad esempio, la mia regia è come se fosse in evoluzione. In “Maternity Blues”, le ragazze ogni sera decidevano cosa indossare, ognuna sceglieva il suo costume, ognuna aveva il suo guardaroba. Giocasta, invece, ha un solo costume.
P.M. – Il tuo curriculum teatrale è copioso e porta la firma di noti registi e autori. Questa è forse la prima volta che ti trovi ad affrontare un grande classico della tragedia greca. Prima volta ma intensa. Come mai soltanto ora? C’entra qualcosa lo studio fatto su “Elena di Sparta o della guerra”?
E.A. – Le compagnie più strutturate possono permettersi di portare in scena i grandi testi classici. Perché solo ora non lo te lo so dire, come dicevo prima a volte è casualità, le cose arrivano.
Il mito a me è sempre interessato molto, infatti, quando avevo iniziato il mio progetto delle “Imperdonabili”, una serie di monografie il cui filo rosso era la guerra, ero partita da Etty Hillesum, poi Politkovaskaja… e uno di questi profili era Elena di Sparta, perché mi sembrava che partire dal mito fosse interessante. In questo caso per parlare della guerra mi sembrava che la figura, non così immediata, ma più legata al senso della guerra fosse Elena di Troia (prima bugia…in realtà Elena è di Sparta). Elena, come dice lo stesso Euripide, non si è mai mossa da Sparta. Diventa interessante come simbolo perché le persone sono sempre state mandate in guerra dalla notte dei tempi per motivi diversi da quelli reali. Erano motivi economici, non c’entrano niente Elena e Paride, è un motivo più poetico della mera economia. Ed è quello che accade sempre: si fa una guerra per difendere un’idea, una religione, un’idea di Stato, di Nazione, di unione, di fratellanza mentre in realtà i motivi sono sempre politici. Non si dice mai al popolo perché va a morire veramente. La guerra è sempre stato un business e sono sempre state dette bugie per convincere gli uomini ad andare in guerra…considerati eroi, ma in realtà è tutta una bugia. Finché non si parla di questa bugia la guerra rischia di essere una questione interessante, mentre non deve esserlo. Deve essere un NO. Non è “per il tuo presente, per il tuo futuro”, ma per il loro. E anche questo discorso, nei secoli, non cambia.
P.M. – Andrea Baracco e Glauco Mauri: due registi diversi, due modi di concepire la messinscena e l’approccio al testo, più verbale il primo, legato alla parola, e più alle suggestioni l’altro. Questo mix di stili, unito alle tue conoscenze e formazione attoriale, cosa ha prodotto di nuovo in te? In cosa ti ha arricchito?
E.A. – Sicuramente è una bella prova di resistenza, la forza che richiede resistere alla tentazione di esprimersi e basta. Avendo io le mie idee e i miei progetti, sono dovuta stare dentro delle regole… con la mia personalità, la mia vitalità, tutto quello che mi porto, però, comunque con delle regole precise poetiche che i registi mi davano. E’ stato interessante verificare che è possibile portare qualcosa di sé, del proprio percorso anche dentro percorsi di altri. L’indipendenza poetica di un attore è fondamentale anche dentro progetti così strutturati. Mi ha arricchito questo, il fatto di divertirmi anche dentro cose che possono essere lontane dal teatro che posso fare io. Stare dentro a una visione non vuol dire essere legati, vuol dire capire quello che gli altri vogliono. E’ divertente (può sembrare una parola leggera, invece è interessante) perché non l’ho vissuta come un compito, forse dieci anni fa l’avrei vissuta in maniera molto più spaventosa, invece adesso mi sono divertita.
P.M. – Metodo interpretativo italiano e metodo americano: ti abbiamo vista sul palco del Piccolo Eliseo lo scorso giugno, al workshop di Ivana Chubbuck “Il potere dell’attore” come attrice nella scena del film “Magnolia”, insieme all’attore Rinaldo Rocco. Sappiamo che sono numerosi i seminari di coach internazionali che segui e hai seguito, tra cui Susan Batson e Peter Clough, per citarne alcuni. Quali sono, secondo te, le principali differenze di approccio alla costruzione di un personaggio? Ti hanno aiutato nella preparazione di Giocasta e Antigone?
E.A. – La mia maestra, la mia prima actor coach è stata Geraldine Byron, un’insegnante straordinaria di metodo che purtroppo non c’è più. Lei mi ha davvero cambiata. Un seminario di due settimane ad Asolo, me ne parla un mio amico e io senza troppo pensarci lo faccio. Lei mi ha insegnato non solo a fare ma anche a sentire. La sensibilità, la paura…“non avere paura” è il tatuaggio che porto (ci mostra il suo avambraccio sinistro). Se io ho paura di fare una cosa, vuol dire che gli do molta importanza, quindi devo essere felice di aver paura e di mostrare la mia fragilità. Più la mostro con consapevolezza più troverò un contatto. E’ come se mi fosse stato dato il permesso di trovare un gate, così lei lo chiamava, il cancello: che cosa posso dare io a Ofelia, cosa posso offrirle. E questa è l’interpretazione. Si parte da me per arrivare a lei. E’ come fare un regalo: devo conoscerti, conoscere i tuoi gusti per farti un regalo e questo rende quella cosa speciale e specifica, non generica. Quel regalo potevo farlo solo io al personaggio.
…Elizabeth Kemp, invece, fa un bel lavoro sui sogni, sul bambino nel personaggio… Susan Batson è quella che per me è meno vicina, anche se è grandissima, però è molto americana e quindi è molto sul “prendi il ruolo”, “supera il provino”. E questo mi spoetizza, essendo io dispettosa non mi va (ride, ridiamo). Invece il discorso di Elizabeth e Geraldine è più poetico.
Per Giocasta e Antigone ho lavorato come ormai lavoro sempre, cercando di divertirmi. Ad esempio, ho fatto la proposta di fare Giocasta bionda e di fare Antigone mora, con la parrucca però. Era la cosa opposta a quella che si poteva più velocemente risolvere (io sono mora!), invece era più interessante il contrario. Io parto spesso dai capelli perché cambiano molto (un viso, una persona, il personaggio). E Giocasta cambia, cerca di rifarsi una vita, è una donna che visse due volte. In lei c’è un po’ una ricerca di una nuova identità. E questo è il regalo che ho fatto io a Giocasta…anche i tacchi, per esempio, sono di Vivienne Westwood. C’erano all’inizio delle ipotesi di regina scalza, invece, per me era molto importante avere un tacco e che lei inciampasse, danno un valore aggiunto secondo me. E poi perché un po’ mi diverte Giocasta/Giocasca (ride, ridiamo). Mi piaceva il fatto che lei non fosse in equilibrio: lei inciampa nella verità, nelle cose, perché, come dicevamo prima, lei sa già…un presagio di caduta finale. E su queste cose ho costruito il personaggio, grazie anche a Baracco che ha colto queste proposte. Se hai la direzione del personaggio, cioè se io ho chiaro il pensiero che faccio, che sia una girata di testa, che sia una caduta, sarà chiaro al pubblico. Se non è chiaro a me quello faccio, è generico, e quindi sarà debole. Il rischio di un teatro a cui c’hanno educato certe scuole è che devi fare delle cose e basta, come se non fossi autorizzato a dare la tua versione dei fatti. Non è vero che i registi hanno la loro visione, tu fai delle proposte. Abbiate delle idee, anche sbagliate, ma fate delle scelte, perché se si parte da “come la devo fare?” diventa poco divertente. Devi dare la tua impronta, se no dove ti diverti?
P.M. –Teatro, cinema e cortometraggi, televisione: cosa preferisci?
E.A. – Adesso preferisco il teatro. Il cinema, il recitare davanti ad una cinepresa, a me interessa tantissimo, e sicuramente mi piacerebbe in futuro riuscire ad entrare nel cinema come sono entrata nel teatro. Ma a me piace che accada quella cosa in quel momento con quel pubblico. Ci sono le persone davanti, per me il fattore umano rimane importantissimo. Chi c’è, c’è. Ci sono delle sere che accadono delle cose magiche tra te e il pubblico, col cinema credo che sia diverso. La fantasia di ricreare è importante.
Ringraziamo Elena Arvigo per la sua attenzione e disponibilità alla nostra intervista e invitiamo tutti, fino al 12 febbraio, al Teatro Eliseo per l’EDIPO di Sofocle (Edipo re per la regia di Andrea Baracco e Edipo a Colono per la regia di Glauco Mauri).