Intervista a Massimo Betti Merlin direttore artistico e fondatore del Teatro della Caduta di Torino

Vanchiglia è un quartiere storico torinese, a due passi da Piazza Vittorio e dalla zona universitaria di Palazzo Nuovo, un quartiere che dopo un lungo periodo di degrado si è trasformato di recente in uno dei poli creativi più interessanti della capitale sabauda, diventando sede di un numero incredibile, e in costante crescita, di diverse realtà artistiche, creative e artigianali di ogni sorta: dall’architettura al multimedia, dalla fotografia alla letteratura, dal design alla scultura, musica, danza. E ovviamente teatro.

Questa vivacità ha dato vita anche all’entità ed evento LOV/Vanchiglia Open Lab, un network indipendente messo insieme da studi, associazioni e altre di queste attività creative, che sfocia in un evento annuale in cui il quartiere apre le porte per farne conoscere vita e fermento.
All’interno di questo quartiere, e tra gli organizzatori stessi della Lov, troverete il Teatro della Caduta, bizzarra realtà teatrale fondata nel 2003 da Massimo Betti Merlin e sua moglie Lorena Senestro all’interno di un vecchio negozio e che da alcuni anni ha raddoppiato con una seconda sala spettacolo (che arriva fino ad 85 posti) con il Caffè della Caduta, offrendo nel cuore del quartiere una formula controcorrente e un offerta teatrale molto ampia e vivace, decisamente fuori dagli standard se pensiamo ad una “piccola” realtà di questo tipo che, oltre ad una compagnia teatrale, ha un programma suddiviso nelle rassegne di Varietà, Open Cafè, Cartellone, Fuori Cartellone, Enterteinment, Palco Aperto.

È proprio al Caffè della Caduta che ho appuntamento con Massimo Betti Merlin per una piacevole chiacchierata, alla scoperta di questo teatro un po’ alternativo, e ovviamente l’incontro comincia subito con una piccola visita guidata, che mi porta in una piccola realtà un po’ naif, dove gli arredi, le pareti e tutta la struttura hanno un sapore artigianale e di vissuto. Soluzioni creative e evidente passione come quella adottata per la struttura a gradoni in legno della sala teatrale, che permette di creare lo spazio per il pubblico e far “apparire” gli 85 posti, buona parte dei quali ricavati con le poltrone recuperate da uno storico cinema di Torino.

Quando ci sediamo per parlare, su di noi incombe alla parete un immenso collage con le locandine di spettacoli passati per la Caduta, che genera quasi un piccolo stordimento.

Massimo Betti Merlin – Ci sono un sacco di cose che succedono alla Caduta. Il martedì sera, siamo in contemporanea sulle due sale, venerdì sera, sabato sera, la domenica per i bambini. Maciniamo quattro titoli alla settimana. Prima erano cinque, c’era anche il giovedì che adesso abbiamo tolto. È una struttura organizzativa che richiederebbe almeno otto persone, invece siamo in quattro. Infatti, appena abbiamo avuto dei finanziamenti abbiamo abolito una serata. Prima non potevamo, altrimenti non pagavamo l’affitto. Per la sala piccola di là abbiamo fatto un mutuo io e mia moglie, di qua quando abbiamo allargato l’organizzazione, coinvolgendo alcuni con cui lavoravamo da alcuni anni, Marco Bianchini, Francesco Giorda e Elisa Bottero, siamo in affitto. Siamo in cinque che generiamo il nucleo base e abbiamo investito in questo spazio. Investito anche fisicamente: il bagno lo abbiamo costruito noi, Elisa ha dipinto tutto quello che vedi. Quando abbiamo montato qui c’erano trenta artisti che ci aiutavano, anche qualcuno del pubblico. Una situazione molto collettiva. All’inizio quando, abbiamo inaugurato, il bar lo facevamo noi, io, mia moglie e tutti gli attori. Queste sono le tracce di un progetto che ha più dell’imprenditoriale che dell’assistenzialismo pubblico.

Paolo Ferrara – Il primo progetto teatrale con cui è nato il Teatro della Caduta è il Varietà della Caduta. Che però non è un varietà in senso stretto…
(M.B.M.) – Il varietà ha una drammaturgia fissa che va in scena ogni settimana. Dentro però ci sono numeri di artisti diversi. Sono organizzate in modo che non siano tutti giocolieri, per capirci. La riuscita della serata è garantita dalla struttura fissa che è organizzata con uno o due attori e due o tre musicisti, a seconda degli anni. Quindi ci sono quattro, cinque persone fisse ogni settimana, mentre gli altri ruotano. Questo è un format che ogni anno ha una drammaturgia nuova, attori nuovi, musicisti nuovi. Grazie a questa cosa ogni anno facciamo dello scouting tra giovani esordienti. I primi cinque anni io ero in regia, mia moglie presentava. Poi sono entrati Marco Bianchini e Francesco Giorda, e siamo rimasti fino ad un certo punto in cui abbiamo cominciato a delegare perché il progetto ha iniziato a prendere percorsi diversi dai nostri. Abbiamo mantenuto la formula, la ricetta base.
Rispetto al classico open stage lo spettatore non viene a vedere una carrellata di numeri, ma uno spettacolo unico. Ad esempio quest’anno lo spettacolo si chiama “Anche il re cade” ed è ispirato ad uno spettacolo di Ionescu, dove un re per cercare di ritardare la morte fa esibire giullari e musicisti. L’altro anno avevamo un seduta psicanalitica dove lo psicanalista era un pupazzo, il Dottor Froidoni, un po’ vecchio porco anche, con un pianista (che oltre a suonare interpretava il segretario del dottor Froidoni), Matteo Castellan e un cantautore, Federico Sirianni, che faceva il cliente cavia in terapia da dieci anni. Insomma ci sono dei plot comici e dei numeri non necessariamente comici, non il classico cabaret ma un varietà più teatrale. Abbiamo cominciato con “Tutti quelli che cadono” dove “quelli che cadono” sono gli artisti che si esibiscono. C’è sempre stata una struttura autoreferenziale, infatti abbiamo poi avuto “La Terapia della Caduta” (quella di Froidoni), “Tutti quelli che Scadono”, etc. etc.

(P.F.) – Quando è arrivata l’esigenza di allargare il vostro progetto?
(M.B.M.)  – Questa sala è nata nel 2011, mentre l’altra sala, la Caduta, nel 2003. Dopo il varietà, già nel 2005, nel giro di sei/sette mesi, gli artisti hanno iniziato a chiedere il palco per fare spettacoli, quindi è nato il Cartellone, che all’inizio aveva cinque o sei titoli, poi ha cominciato ad averne dieci, quindici, venti fino ad un anno in cui abbiamo avuto centottanta serate. Qui abbiamo aperto nel 2011 anche per far fronte ai tagli. I primi anni non abbiamo avuto finanziamenti, poi ad un certo punto la circoscrizione, poi le politiche giovanili, poi la regione e per ultimo il comune di Torino si sono accorti che esistevamo, anche perché avevamo un flusso di pubblico talmente alto da essere superiore alla media dei piccoli teatri, quindi ad un certo punto hanno dovuto iniziare a finanziarci. Quella che abbiamo qui, rispetto alla sala tradizionale è quella di una situazione aperta, in cui tu puoi andare in scena quando vuoi. Per gli artisti è una droga, perché loro possono venire e provarsi i pezzi. Non ci sono provini: tu vai in scena comunque, per cui è una situazione in cui può succedere di tutto. Non esiste una prova con la regia: io o Fabio o chi è in regia fa le luci in diretta con lo spettacolo. Presentiamo numeri che noi non abbiamo ancora visto e quindi questo crea una situazione in cui accade veramente qualcosa. C’è questa cosa, che qui vengono sia professionisti che esordienti, ma non vengono marchiati. Tu vieni presentato con il tuo nome di battesimo. E questo diminuisce questa mitomania tutta italiana del pop. Qui c’è sempre stato fin dall’inizio una critica al professionismo e invece una volontà di fare scouting, ma farlo mettendo in orizzontale professionisti ed esordienti. Piace molto anche ai professionisti: col tempo abbiamo avuto una grande crescita della partecipazione dei professionisti. Chiaro che il nostro focus rimane soprattutto sull’esordiente, soprattutto per quanto riguarda il varietà.

(P.F.) – Che generi di spettacoli finiscono in scena alla Caduta?
(M.B.M.)  – Da sempre tutto: multidisciplinarità senza limiti. Abbiamo fatto serate di poesia, artisti di strada con musicisti. Anche perché in questo tipo di serate nascono conoscenze. Almeno un centinaio di produzioni in questi anni sono nate da musicisti che si sono incontrati con gli artisti. È un po’ un cortocircuito di linguaggi che abbiamo consapevolmente fomentato fin dall’inizio. La contaminiazione più forte è sempre stata soprattutto dall’arte di strada e dal teatro, e la musica dal vivo ovviamente. Perché il nostro stesso modello di lavoro mutua un’idea dal teatro di strada, che è il cappello: alla Caduta l’ingresso è gratuito e a fine spettacolo c’è il cappello. Questo modifica completamente la serata. Il contesto si modifica: tu vai a vedere una cosa che in un certo modo ti viene donata, e già questo ti spiazza. La gratuità insospettisce di solito.

(P.F.) – Però in un certo senso è un meccanismo vicino alle logiche di quest’era di social e sharing economy…
(M.B.M.)  – Vero, solo che quando abbiamo iniziato ancora non c’erano i social… Questo comunque crea una situazione dove tu viene a scoprire qualcosa che non conosci. Normalmente oggi il teatro lavora sul pubblico fidelizzato a dei titoli, oppure a volte alla programmazione. Invece qui vieni a vedere normalmente qualcuno che non conosci, ti fidi un po’ della situazione. Vieni a bere qualcosa e diventa un po’ “ciao, cosa date stasera?”.
E questa cosa del cappello modifica perché il tema del denaro viene affrontato in maniera diversa. Quando tu via a teatro paghi un biglietto e la questione finisce lì. Mentre la verità è che il teatro non ha prezzo, quindi non ha senso pensare di liquidare un servizio di questo tipo. È più interessante mettere il pubblico di fronte al dovere di prezzare quello che vede. E questo genera delle cose. Mette anche un po’ in difficoltà gli artisti, perché è chiaro che il professionista in questa logica si trova un po’ stretto. Per questo motivo non abbiamo mai chiamato noi gli artisti, sono loro che vengono da noi. Nel 2009, prima di aprire qui, abbiamo un poco cambiato la formula. Abbiamo una tessera, un contributo annuale, che si paga dalla seconda volta in cui si viene, per cercare di rientrare nelle spese. È un po’ come dire: se ti è piaciuto questo teatro sostienilo. Quindi, la prima volta entri sempre gratis, dalla seconda paghi un contributo annuale, che all’inizio era di dieci euro e adesso è di sedici, e poi entri gratis tutto l’anno, e il resto paghi con il cappello. Questa formula ci ha permesso di sostenerci nonostante un finanziamento pubblico molto basso. Nel 2013 eravamo arrivati al 18% di finanziamento pubblico. Da quest’anno siamo un poco più finanziati perché siamo entrati come compagnia ministeriale under 35. Sono state scelte otto compagnie in Italia e noi siamo una di queste.
La programmazione però continua a non essere finanziata. Considera che questo nostro continuo scouting tra gli esordienti, poi ha permesso ad alcuni di diventare bravi. Anche perché, potendo andare in scena ogni settimana, imparano. Invece spesso gli attori hanno questo problema, fanno le scuole, poi hanno il saggio alla fine dell’anno, poi magari a cinquant’anni imparano e diventano bravi. Qui puoi provare con frequenza con il pubblico, e se non provi con il pubblico non impari, perché l’attore deve confrontarsi con il pubblico. Insomma, questo modello di lavoro ha generato dei professionisti e noi stessi come struttura abbiamo dato vita ad un progetto teatrale molto diverso da molti altri progetti teatrali. Il vecchio modello prevede comunque un grosso contributo da parte del finanziamento pubblico importante, che a volte arriva al 70%, invece noi abbiamo sempre accettato qualunque lavoro, con un ampio campionario, dai lavori con i servizi sociali a inaugurazioni di centri commerciali a spettacoli per assossorati, etc.
Con il varietà abbiamo una media di un artista nuovo a settimana, immagina in dieci anni la varietà e la quantità di artisti! Ci permettono di far fronte alle richieste più varie. È un modello di lavoro elastico, una capacità commerciale di adattamento che appartiene alla nostra generazione e non alla precedente. Quindi è anche un po’ un modello imprenditoriale, anche se siamo no profit, almeno ci sosteniamo un po’.

(P.F.) – Pensando ad una logica “imprenditoriale” però il modello del cappello e l’ingresso gratuito suonano strani…
(M.B.M.) – Questo modello ha dei limiti, delle difficoltà da superare. Il biglietto è considerato una condizione sine qua non per il teatro, ma invece l’acquisizione è di questo secolo. In Italia c’è la tradizione della commedia dell’arte, ma non solo, in cui c’è la logica del cappello e il rapporto col pubblico e una situazione più popolare erano parte dello spettacolo, ma lo è anche l’arte di strada. Quando noi abbiamo cominciato a fare cappello in teatro non lo faceva nessuno. Ad oggi in Torino mi vengono in mente almeno dieci spazi in cui lo fanno, quindi è stato un modello virale. Che per noi è anche una croce, perché poi nel mondo più ufficiale del teatro noi siamo bollati come quelli che hanno portato il cappello. Però questo cappello ha portato anche un certo fermento a Torino. Ma anche nei centri di aggregazione giovanile, con cui noi collaboriamo, questo modello ha dilagato. Ci sono vantaggi e svantaggi. Il vantaggio è che viene più gente. È già solo questo sarebbe più che sufficiente.
Molti sono dubbiosi sulla qualità, perché ci sono pochi soldi. Perché gli artisti portano a casa il cappello, non hanno il cachet. In verità poi gli artisti capiscono questo modello di lavoro e lo vogliono sostenere. Per cui vengono da tutta Italia, esordienti e professionisti. Da due anni abbiamo un pezzo della programmazione, che è il Cartellone, che è finanziato dalla Fondazione Piemonte Live. Quindi gli artisti di questa rassegna, che sono quindici titoli l’anno, hanno un cachet. Più il cappello, per due repliche. Sono titoli che arrivano da tutta Italia più qualche produzione nostra.

(P.F.) – Che tipo di pubblico raccoglie la Caduta?
(M.B.M.)  – Diciamo che questa è stata proprio la prima cosa che ci siamo chiesti. Abbiamo scelto l’ingresso gratuito proprio per evitare di avere il pubblico stantio del teatro. Stantio perché purtroppo a teatro vanno gli operatori di settore, i teatranti e un po’ di intellettuali spesso amici dei teatranti. Veramente un mondo asfittico e poco stimolante. Ed è un mondo al crepuscolo, nel senso che è una nicchia, una roba che interessa a pochi e non è più attuale. Quindi, noi con l’ingresso gratuito abbiamo detto: "apriamo le porte e vediamo cosa succede". Poi ovviamente con un linguaggio anche più popolare, anche con delle proposte di programmazione varie, ma anche varie in termini di intrattenimento, teatro colto, musica.
Mettendo tante cose dentro la gente non capisce più bene. Ti trovi più nella situazione, non vai tanto per lo spettacolo. Quindi è un pubblico molto vario. Non è un pubblico di soli intellettuali, non è un pubblico solo popolare. Ogni sera ha delle fisionomie diverse. 

Lo stesso varietà, lo stesso numero, la settimana prima ha fatto il botto, questa viene accolto freddamente, perché in una sala piccola di cinquanta persone, ne bastano quindici che ti modificano tutto l’appeal della sala. Avendo la tessera abbiamo anche la possibilità di monitorare questo flusso, e quindi abbiamo anche delle statistiche che ci dicono chi sono le persone, quanti anni hanno, se sono stranieri, se vengono dalla regione piemonte… Insomma, il pubblico è il nostro forte, perché al teatro non c’è il pubblico, lo sanno tutti. Poi c’è un offerta imbarazzante di teatro. Sarebbe bello ci fossero meno eventi, non per fare meno cultura, ma perché c’è troppo e non viene assorbito.

(P.F.) – Fasce d’età di questo pubblico?
(M.B.M.)  – Molto varia, molti giovani. Un po’ perché lavoriamo con tanti giovani sul palco e i giovani chiamano i giovani, un po’ perché il modello di lavoro è giovane, un po’ perché siamo in un quartiere universitario.

Ringraziamo Massimo Betti Merlin per la disponbilità e invitiamo tutti a scoprire il Teatro della Caduta!

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