
Abbiamo avuto la possibilità di addentrarci nell’opera di Emiliano Giglioli, un artista toscano che rende la fotografia qualcosa di altro, sulla soglia dell’arte informale. La sua spasmodica ricerca inizia nel 2020 durante il primo lockdown ed è testimoniata da numerosi progetti, che pur differenziandosi, sono precipitati di un occhio che insiste sull’indistinto, lo scarto, la consunzione e l’indecifrabile. Le fotografie di Emiliano Giglioli sono le immagini ‘sporcate’ di un dissesto, il materico impregna e addensa una violenza accaduta, originaria e incessante. Nei suoi progetti seriali non ci sono indizi da ricomporre in un mosaico narrativo, ma frammenti esasperati che battono l’impossibilità di un discorso. Giglioli, qualsiasi soggetto scandagli, ne coglie il nucleo oscuro, si spinge addosso al limite in cui la composizione crolla o si lacera, perché la crudezza della materia è in primis il magma, o piuttosto i suoi postumi, i resti di un caos insanabile. Inquadrature sghembe, geometrie labirintiche e ossessive, sono altre tracce d’urto sull’estremo del visibile. In questa intervista mettiamo a fuoco tre lavori, capaci di condensare la sua cifra. “Destrutturare il tempo” è incentrato sulla stratificazione dei manifesti strappati. “Texmex” fa esplodere l’arsura del film “Non aprite quella porta”, mostrando fotogrammi catturati appositamente dallo schermo del pc, per entrare nel cedimento della pellicola, nella sgranatura, nell’ambiguità e offrendo abnormi dettagli ‘anonimi’ del capolavoro punk di Tobe Hooper. In entrambi l’impatto dei colori coagula il ‘fuori forma’ e la forza dei suoi contrasti. In “Carreggiate” gli asfalti tratteggiati in notturna sembrano esprimere l’insensatezza del movimento senza incontro se non la propria stessa allucinazione e la prossimità ad essere inghiottito.
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EMILIANO GIGLIOLI E DESTRUTTURARE IL TEMPO

Chiara Guarducci: C è un legame particolare tra questo progetto e “Vito C” con cui hai iniziato?
Emiliano Giglioli: Sì senz’altro. “Vito C” e “Parco 24” sono i due progetti iniziali, che riguardano lo stesso luogo ossia gli immediati dintorni di casa, per ovvie ragioni. Nella mia ricerca visiva non ha nessun ruolo particolare la pandemia ma è vero che il mio sguardo è cambiato durante il primo lockdown. Ho la fortuna di vivere in un posto che mi permetteva di uscire più o meno di nascosto, per brevi passeggiate, per non andare totalmente fuori di testa. Avevo comunque uno spazio limitato a disposizione, poche centinaia di metri. Molto probabilmente questa finitezza spazio/temporale ha orientato il mio sguardo sui dettagli ambientali apparentemente insignificanti, una cosa che in condizioni normali non avrei mai fatto. Dovevo ‘bere’ tutto il possibile, nel minimo spazio/tempo a disposizione. Da lì, questa nuova attitudine è valsa per tutto e si sono aperti numerosi progetti, tra cui anche questo.
CG: La stratificazione materica di queste fotografie crude e astratte le rende opere informali, nelle vicinanze di Burri.
EG: Burri è un artista che considero fondamentale nella mia formazione. Tutto quello che ho amato nel mondo dell’arte- incluso anche cinema e letteratura- lo trovo, spesso in seconda battuta, nelle immagini che vedo. Nel mio processo associativo assimilo questi soggetti molto più all’informale, come noti giustamente tu, e più all’action painting che al nouveau réalisme, come invece sembrerebbe ovvio. Mi piace l’idea che qualcuno strappi i manifesti completamente a caso, con un gesto violento, senza l’intenzione di creare gli equilibri estetici che spesso si generano in modo del tutto inconsapevole. Quest’idea di creare un’opera d’arte senza nulla di premeditato mi sorprende, la trovo affascinante, è un qualcosa che vale la pena di essere catalogato prima che sparisca.

CG: Colpiscono molto gli avanzi, ciò che esubera inconsumato dal tempo, dalla ruggine.
EG: In definitiva, “Destrutturare il tempo” è una personale riflessione sul concetto di tempo. Gli spazi di affissione, se li guardo quando sono denudati, mi sembrano tabernacoli provenienti da tempi lontani, fermi lì da chissà quanto tempo, spesso devastati dagli agenti atmosferici. Invece, basta a volte qualche ora perché vengano rinnovati per poi essere nuovamente stracciati e riportati a quell’assurdo passato apparente. Questa contraddizione temporale mi affascina, in genere tutte le contraddizioni mi interessano. A livello estetico li trovo bellissimi, hanno quei rossi ossidati che amo particolarmente e che ritornano in altre mie immagini. Quelli che catturano la mia attenzione hanno per me un’armonia sorprendente nella loro apparente caoticità.
EMILIANO GIGLIOLI E TEXMEX

CG: La serie “Texmex”, ispirata a non aprite quella porta, esalta e crea, nei fotogrammi catturati dal video, l’esasperazione dei rossi, l’ustione sgranata dei pixel, la tua cifra ‘sporca’, tra immagine e visione, leggibilità e indistinto
EG: Sì, i fotogrammi sono del film “Non aprite quella porta”, l’originale del 74. Quegli scatti sono fatti allo schermo del pc e rielaborati in modo da amplificare le sensazioni estreme che la pellicola veicola. La scelta del pc come mezzo è dettata da ragioni puramente estetiche: mi piace la distorsione che restituisce in termini di luce e forma, l’accenno di sgranatura dei pixel e il dialogo dello schermo con l’ambiente esterno, sempre poco prevedibile. Riguardo alla ricerca sui colori è una cosa piuttosto strana per me. Come fruitore d’arte sono sempre stato attratto dal non colore, mentre nella mia espressione il colore ha un ruolo non marginale. In realtà, non mi serve mai per dare una gradevolezza estetica all’immagine. Al contrario, lo uso per sporcarla e per amplificarne l’inquietudine e la violenza visiva e questa, come dici tu, è una caratteristica comune a tutte le mie serie di foto. Nella rielaborazione del frame cerco di seguire quello che lo schermo restituisce all’obiettivo, che non coincide mai esattamente con quello che vediamo. In questo caso, i colori prevalenti erano il rosso bruciato, che ricorda il sangue rappreso, e un blu metallico, glaciale. Esasperando i contrasti tra questi due colori, uno organico, l’altro artificiale, si può riprodurre quella sensazione di allucinazione malata che è l’essenza del film.
CG: Come hai scelto i frame?
EG: Seguo un po’ la logica delle foto nel reale, mi soffermo prevalentemente sui dettagli secondari, sui momenti apparentemente marginali e non didascalici. Isolare fotogrammi non iconici, quindi non immediatamente associabili, destruttura la pellicola, nel senso che spariscono gli elementi costitutivi e riconoscibili di un film. Gli attori non sono più tali, non esiste più plot, gli ambienti sono decontestualizzati. Tutto sembra perdere significato. Ma scegliendo i momenti e i dettagli giusti quello che resta dell’opera originale è la sensazione che veicola, a mio avviso la cosa che conta davvero di un’opera. È un gioco che mi diverte ed è, se vuoi, la mia dichiarazione d’amore per il cinema e per questo film in particolare.
CG: Stai sviscerando altri film?
EG: In questo momento sto analizzando in parallelo tre episodi di “Sogni” e “Gli Uccelli”. Del primo mi interessano l’aspetto visionario e quello cromatico, con l’emersione prevalente del giallo e verde acido. Gli uccelli è un progetto molto affascinante ma altrettanto complesso. Il film è un capolavoro di ambiguità che, come si sa, gira intorno a un gigantesco vuoto, la mancanza di spiegazione razionale degli eventi. Ho letto parecchie interpretazioni, molte suggestive, ma io vorrei rappresentare quel vuoto più che cercare di spiegarlo. Non credo che nell’arte si debba trovare una spiegazione a tutto, a volte è interessante assecondare l’ineffabilità piuttosto che cercare di ingabbiarla. È un’operazione difficile ma vale la pena tentare.
EMILIANO GIGLIOLI E CARREGGIATE

CG: Anche questo tuo progetto è fuori narrazione. non ha niente del viaggio, sono strade allucinate, tracce di una corsa contro buio, pulsazioni della mente. come nascono queste visioni?
EG: Per spiegarti la genesi della serie devo di nuovo fare riferimento alle mie associazioni. Sono sempre stato affascinato dai film di Lynch, che contengono alcuni elementi ricorrenti. In particolare, mi hanno sempre colpito quei momenti in cui si inquadrano le strade buie, illuminate dai fari, che scorrono rapidamente. Ma non riuscivo a circoscrivere con precisione le sensazioni che mi suscitavano, oltre a una generica inquietudine. Allora ho provato a scattare a modo mio alcuni fotogrammi reali, dall’auto, per inchiodare l’immagine nel nulla spazio/temporale. Come puoi immaginare, le foto erano scattate in condizioni di assoluta emergenza ed è stato molto divertente vedere il risultato in un secondo momento. La segnaletica bianca o gialla impone un messaggio ultimativo di sicurezza, in un quadro totalmente nero che annulla ogni contesto ambientale. Ma alla fine della striscia c’è una voragine possibile, un abisso che mette totalmente in discussione il controllo sulla realtà. Ecco, questo è quello che Lynch mi ha trasmesso con quelle scene, una inquietante corsa verso l’allucinazione. Ma c’è un altro aspetto che mi intriga. La strada è stata per me sempre sinonimo di libertà. La associo ai miei viaggi più belli e assurdi, simboleggia possibilità pressoché infinite di movimento. Eppure, mai come quando siamo in macchina la nostra libertà è limitata, se ci pensi. Siamo immobilizzati, costretti a gesti funzionali, isolati dall’ambiente esterno. Quindi mi chiedo se alla fine questa libertà sia oggettiva o solo una mia proiezione mentale. Come vedi si ricade sempre nel fascino delle contraddizioni.
BIOGRAFIA
Emiliano Giglioli vive e lavora in provincia di Firenze, nei comuni di Montelupo Fiorentino e Capraia e Limite. Si è laureato in Scienze Naturali a Firenze e per due anni ha lavorato nella ricerca per il CNR (gruppo difesa catastrofi idrogeologiche) e in collaborazione con UNIFI. Dal 2006 insegna matematica e scienze nella scuola secondaria di I° grado di Montelupo. È un consumatore seriale di arte contemporanea e cinema, dal 2019 al 2022 ha curato rassegne cinematografiche presso il circolo ARCI “Il Progresso” di Montelupo Fiorentino e ad Empoli in collaborazione con ASTRO e la libreria “La Rinascita”, nel contesto dell’ottobre rosa 2019. La sua ricerca artistica inizia nel marzo 2020 e affronta piani estetici, introspettivi e concettuali. È priva di implicazioni politiche e sociali esplicite. Il mezzo è una fotografia digitale volutamente realizzata con mezzi immediati e poco tecnici, per favorire immediatezza e azione a discapito dei formalismi.